Jaume Cabré

MilanoNera ha intervistato Jaume Cabré autore de Le voci del fiume

Perché ha scelto di ambientare il suo romanzo in quel periodo della dittatura franchista e per chi lo ha fatto? Per i giovani, che l’hanno studiato sui libri di scuola, o per chi invece ha vissuto in pieno il momento della transizione dal regime alla monarchia?
Non scrivo per nessuno in particolare: scrivo per me e senza sapere esattamente di cosa voglio scrivere. Il processo di creazione è un meccanismo complesso che conduce verso strade inaspettate. Io volevo scrivere un romanzo su alcuni maestri di un piccolo paese. Alla fine, sono venute fuori molte più cose, tra le quali, riflessioni sulla memoria, il ricordo, la distorsione della storia da parte di coloro che vinsero la guerra…

Non si è preoccupato che la velocissima alternanza di piani storici e punti di vista potessero appesantire la lettura del libro? Qual è la loro funzione?
Potremmo considerarlo sia un pericolo che uno stimolo alla lettura. Personalmente, credo nell’intelligenza del lettore e pertanto lo concepisco come un incentivo alla lettura attiva, piena di continue scoperte. Oltre alla funzione di creare certo piacere al lettore, questo costante movimento nel tempo è un modo per relativizzarlo, per mettere in contatto epoche distanti.

Dalle ricerche che ha fatto e dalla sua esperienza di spagnolo e scrittore, come pensa che viva oggi la Spagna questa sua difficile eredità storica?
Mi sento poco spagnolo. Diciamo che lo sono per imperativo legale. Uno dei tanti problemi della Spagna è stato un ritorno alla democrazia, dopo la morte del dittatore, troppo tutelato dall’esercito, di modo che gli unici a pagare sono stati coloro che la guerra civile l’hanno persa. Mentre i vincitori hanno continuato al potere, o comunque nelle sue vicinanze.
Esistono tuttora franchisti in attività, nonostante facciano di tutto per dissimularlo. Alcuni hanno pagato, mentre altri sono rimasti impuniti. E Franco ci ha anche lasciato un re in eredità. Si è fatto qualche timido passo, con paura, verso un’invenzione chiamata “stato di autonomie”, che aspettiamo ancora che funzioni. Sarebbe stato meglio aver avuto il coraggio di progettare uno stato federale per quei paesi (Galizia, Paesi Baschi, Catalogna) che lo desideravano. Molti di noi che non ci sentiamo spagnoli – e siamo tanti – probabilmente adesso vedremmo le cose in modo distinto.

silvia cravotta

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