La città dei vivi – Nicola Lagioia



Nicola Lagioia
La città dei vivi
Einaudi
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“Quella sera però, al decimo piano di via Igino Giordani, sembrava che tutta la disperazione, il livore, l’arroganza, la brutalità, il senso di fallimento di cui era piena la città, si fossero concentrati in un unico punto” scrive riassuntivamente (a p. 85) Nicola Lagioia – direttore del Salone del Libro di Torino e già autore di un noir di alto livello letterario, La ferocia, vincitore del premio Strega 2015 – in questo nuovo “noir morale” e sociale” che racconta un crimine vero, orrendo, scritto alla maniera di A sangue freddo di Truman Capote. La città è Roma nel marzo 2016, senza sindaco e con due papi, in cui gli autobus si incendiano appena escono dal deposito, i gabbiani scendono a ghermire i topi che escono dalla monnezza da cui è sepolta, un turista olandese a sua volta scende in un hotel del centro e sa a chi rivolgersi per affittare senza documenti una spoglia stanza dove incontrare un prostituto minorenne maghrebino. In via Igino Giordani c’è il cadavere di Luca (23 anni), un proletario mite e benvoluto, che lavora in una carrozzeria a 150 euro la settimana (probabilmente in nero) e che occasionalmente si prostituisce, fidanzato con Gaia, ragazza intelligente e determinata di cui è molto innamorato (e viceversa). E’ stato ucciso con un centinaio di coltellate e colpi di martello, dopo una agonia durata ore di torture e sofferenze, da due giovani “di buona famiglia”: Marco (29), omosessuale, organizzatore di eventi, figlio di un noto e stimato manager culturale, e Manuel (28), eterosessuale, improbabile startupper, figlio di un assicuratore e ristoratore, rinchiusi in un appartamento da due giorni e strafatti di cocaina (per circa 1500 euro) e vodka. 

I fatti sono noti, basta andare su Internet per chi non ricorda o ama spoilerare: il “chi” e il “come” si sanno, ma non il “perché”. È proprio questo “perché” che Lagioia cerca di capire, di ricostruire: è rimasto colpito, ossessionato dal fatto al quale ha lavorato per anni, a intermittenza, per la sua atrocità, gratuità, banalità e casualità, e anche per il ricordo di quando da giovane fu pure lui a un passo dal limite e se ne ritrasse appena in tempo. Ha parlato con amici e familiari, avvocati e giornalisti, persino con il piemme, uomo di rara professionalità e umanità; ha letto le cronache dei giornali, i verbali di polizia e gli atti processuali; ha visto gli interventi sui media dei protagonisti indiretti; ha ascoltato le chiacchiere nei bar; ha camminato a lungo, perlustrato i luoghi del fatto, quasi a volerne risentire l‘atmosfera. Non giudica, cerca di essere il più distaccato possibile, ma con una “pietas” di fondo per la vittima e i carnefici, senza poter escludere la presenza del Male, in qualsiasi modo la si voglia raffigurare, persino diabolica. Non è un delitto politico o ideologico, nemmeno classista, non passionale o di “ordinaria” criminalità. Due uccidono un altro perché ci vogliono provare, per il gusto di farlo. Senza voler scomodare Dostoevskij, siamo in presenza di un noir nerissimo in cui gli interrogativi etici e lo sguardo sociologico chiamano in causa questioni come il contesto familiare e ambientale, la colpa e le responsabilità individuali e sociali, il libero arbitrio. 

Colpisce in particolare la sequenza di piccoli punti, tragicamente determinanti, però, nell’ordito generale della trama. Prima del delitto, quando ormai l’intenzione fatale è scattata, i due escono in macchina, Marco vestito da donna e con lo smalto sulle unghia, per cercare qualcuno nei luoghi abituali della prostituzione maschile, inutilmente. Tornati a casa si mettono febbrilmente a cercare al telefono qualcuno disponibile a un festino di sesso e droga. Arriva il cameriere del ristorante del papà di Manuel, uno abituato a “pesare” i clienti con uno sguardo, pippa una striscia e vista la situazione se ne va. Poi è la volta di Alex, segnato nella rubrica come Tiburtina, perché incontrato una sola volta in quel quartiere, pugile dilettante, sbandato, senza casa ogni notte cambia letto da amici o in un ostello; l’invito con il miraggio di un divano è irresistibile, pippa anche lui una striscia, ma poi a causa di un alterco verbale con Marco va via. Quindi la pallina della roulette si ferma su Luca. Offrire e farsi una presa sembra la cosa più normale che ci sia, come salutarsi con un ciao. Si può azzardare un accostamento con le feste a Milano in cui troneggiano due piatti: uno di coca e l’altro di droga dello stupro?

E l‘olandese? Sorpreso in flagrante dalla polizia, come finisce non c’è su Internet e non lo leggerete qui, ma in fondo al libro.        

Fernando Rotondo

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