La discendenza



Angela Capobianchi
La discendenza
Novecento
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Ho pensato spesso che il liceo sia un luogo di passioni forti, ed esplosive in pectore: allievi su quella soglia incerta e conflittuale che è l’adolescenza, insegnanti di pretese spesso oltremisura, un ambiente non di rado claustrofobico e di eccessiva competitività.
Il giallo classico ne ha tratto esemplari rappresentazioni, fin dalla sua ‘età dell’oro’: basti pensare a Mistero nell’antico college di Conan Doyle o Macabro quiz di Agatha Christie. Per poi approdare, in tempi più recenti, a opere non confinabili nei ristretti confini del genere, come Scuola Omicidi di Elizabeth George o Dio di llusioni di Donna Tartt, che arricchiscono il mistero a base della narrazione con singolare profondità di indagine psicologica e superba resa delle suggestioni drammatiche.
E’ nel loro solco, di romanzi il cui spessore varca il genere, che si pone La discendenza (Novecento Editore, collana Calibro 9) di Angela Capobianchi, un racconto che della classicità fa il perno e il cuore pulsante della narrazione.
Un giallo classico, nell’accezione migliore del termine, che dipana il mistero con trama impeccabile e indagine serrata e risponde in modi e tempi più che convincenti ai tre basilari quesiti della whodunit: chi, come, perché?
Un luogo classico: il Giustiniano, liceo classico appunto, in cui è agevole riconoscere il D’Annunzio di Pescara e quella sua architettura tra razionalistico nitore e reverente omaggio a un’arte imperiale.
Un omicidio classico: una vittima, insegnante di greco antico, nelle cui viscere messe a nudo con efferato accanimento viene ritrovato un frammento di carta su cui è vergata una citazione dagli Annales XIV-8 di Tacito, “ventrem feri” (colpisci al ventre), esortazione rivolta da Agrippina al sicario inviato per ucciderla. E un assassino che si firma appunto ‘Nerone’, il figlio di quell’imperatrice.
E’ il commissario Riccardo Conti, protagonista anche del precedente romanzo di Angela Capobianchi Esecuzione (Premio NebbiaGialla 2012), a reggere le fila di un’indagine che presto si carica di altri omicidi, ammorbati tutti dal sapore amaro della vendetta. Un personaggio che, pur tra rimpianti personali e ribellioni professionali, sfugge agli stilemi di genere per la passione autentica di un mestiere e per una instancabile ricerca di verità che lo fanno amare dalla sua fedelissima squadra, il vice Silvino Rocci in primis, qui nell’insolito ruolo di nocchiero tra le superbe colonne di quel liceo e al cospetto del suo corpo docenti, tra un antico ma sempre carismatico professor Guglielmo Rastofani e il nuovo preside Saverio De Marchis.
De Marchis e alcuni docenti, loro stessi ex-allievi del Giustiniano, si conoscono da quei tempi e il romanzo della Capobianchi diviene così il romanzo dell’adolescenza: tra allievi, adolescenti di oggi, e insegnanti che solo ieri lo erano. Gli uni e gli altri accomunati da una stagione irripetibile, di passioni e fragilità, di eccessi e tormenti che rendono indecifrabile e rovinoso il confine tra lecito e illecito.
Altro non si può dire di una trama che scorre senza ostacoli per le quasi 570 pagine di un racconto che ho posato con rammarico, tanto i protagonisti e l’atmosfera mi hanno catturata.
Allieva di liceo classico anch’io, ho ritrovato tra i muri del Giustiniano molti dei miei ricordi e la consapevolezza di studi che, come afferma De Marchis nella sua folgorante prolusione, non insegnano “[…] a fare un bel nulla: riparare un avvolgibile, saldare due pezzi di ferro, gestire un’impresa commerciale, tenere una contabilità, cucire, cucinare o disegnare su un foglio in scala. Ma [gli allievi di un liceo classico] dovranno essere in grado di impararlo prima e meglio degli altri, se solo se lo metteranno in mente. Chi esce da qui, dovrà essere capace di tutto”.
E ho sentito una straordinaria affinità con l’autrice che di quel suo passato classico reca un’indelebile impronta, mai autocompiaciuta anzi colorata di lieve ironia: i termini dotti, ‘forastico’ tra i primi, sembrano usciti da quel Dizionario dei sinonimi su cui si è accanito con indefessa puntigliosità il suo professor Furio Longhi e le non rare citazioni latine cadono con disinvolta pertinenza.
Una prosa ricca di notazioni psicologiche e animata di suggestioni d’ambiente, dalla prospera cascina della sorella di Rocci alle vie di una Pescara citata con amorevole appartenenza.
Un romanzo raro, per sensibilità di sguardo e capacità di penetrazione dei misteri del passato, un romanzo della memoria.

Giusy Giulianini

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