Chi ha ucciso l’Innominato? È la prima domanda che affiora naturale sin dall’incipit di “La fossa dei lupi” di Ben Pastor, che ci informa di “un sanguinoso caso successo nel sito montano detto Panperduto sopra Lecco… nella notte fra il 9 e il 10 del mese corrente. Nel suddetto luogo è stato reperito il cadavere del cadavere del conte Bernardino Visconti, quondam noto et grandemente temuto sotto l’appellativo di Innominato”.
La scrittrice che ha alle spalle più di una ventina di romanzi, racconti e che ha abbracciato il genere giallo storico con la serie del soldato-detective tedesco Martin Bora e con l’investigatore del IV secolo d.C. Elio Sparziano, si è cimentata questa volta con un sequel de “I promessi sposi” che ha ambientato nel 1631.
Si tratta di un “omaggio esplicito e pieno di gratitudine al capolavoro di Alessandro Manzoni”, come scrive l’ex docente di storia e scienze sociali di diverse università americane nell’introduzione. La chiave che lo ispira è felicemente ‘pastoriana’.
La trama gialla, organizzata su un orizzonte narrativo che si delinea in 404 pagine corredate da un interessante glossario, rimette in gioco Renzo e Lucia, qui in attesa del primo figlio, Agnese, un don Abbondio che non si smentisce mai, i bravi e la ‘sventurata’ monaca di Monza. Il sospetto aleggia dentro e fuori una Milano dai fetidi bassifondi, tra miracoli veri o falsi, attentati e vendette. Le vite, ambizioni e moventi dei sospettati vengono passati al setaccio dal giovane luogotenente di giustizia Diego Antonio de Olivares, intenzionato a scoprire chi abbia ucciso Bernardino Visconti sui monti sopra Lecco, in un luogo chiamato, appunto, ‘la fossa dei lupi’.
Tra gli strumenti d’indagine dell’epoca c’è anche la tortura per cui “messi alle strette, i prigionieri confessavano le cose più assurde: persino la verità”, puntualizza Ben Pastor. Ma non è solo una caccia all’assassino ciò che spinge il lettore ad apprezzare l’intricato romanzo frutto di due anni di minuziose ricerche storiche svolte dall’autrice. Un atteggiamento di religioso scrupolo per essere fedele a un romanzo italiano che è anche quello più letto sui banchi di scuola.
La finezza psicologica di Ben Pastor nel denudare progressivamente i sentimenti più riposti del suo protagonista spagnolo-italiano si esplica grazie alla presenza discreta ma anticonformista di Donna Polissena, una vedova agiata dall’ingegno acuto, alimentato da una passione sconfinata per la cultura. Il suo fascino, la sua autonomia di giudizio che ben sa destreggiarsi tra pericolose maglie sociali e religiose, consentirà infatti al luogotenente timoroso di Dio (ma con riserva) di portare alla luce le sfaccettature anche materiali della sua anima al netto di un tormentato conflitto tra carne e spirito.
Ritroviamo, soprattutto in quello che può essere considerato un terzo atto, la capacità di sfumare i sentimenti e di delineare accuratamente l’evoluzione del protagonista che tanto avevamo apprezzato, nell’ottobre del 1944, ne “La Venere di Salò”, in cui il colonnello Martin Bora si trovava tra i fuochi non solo partigiani e fascisti ma anche di una donna conturbante, Annie.
Nel caso di Diego Antonio Olivares il conflitto tra carne e spirito balza è reso più acuto dal tentativo di dialogo spesso impossibile con il sistema di valori e l’ethos dell’epoca.
In conclusione, chi avrà stroncato l’Innominato di Ben Pastor sin dalla prima pagina “con un singolo colpo d’archibugio o similare arma da fuoco”, dunque? Ripensando al Manzoni e a un orizzonte più ampio che si allarga all’ode “Il 5 maggio” verrebbe da concludere: “Ai posteri l’ardua sentenza”, considerate le numerose piste seminate nel testo dall’autrice. Ma basta indossare gli ‘antojos’, antico termine spagnolo che significa ‘occhiali’, dell’indagine per scoprire un mondo narrativo per certi versi familiare e per altri no. Così congegna il suo incanto Ben Pastor, con l’ausilio della sua lente sulla realtà storica decisamente originale.