La nostra Raffaella Bianchi ha avuto il piacere di incontrare e intervistare Melanie Raabe a Roma, in occasione del Krimi Festival
Come è nata in te la passione per la scrittura?
Ho sempre voluto scrivere, sono stata anche giornalista, ma non ho mai pensato che la scrittura potesse diventare il mio lavoro. Non conoscevo scrittori nella zona in cui vivevo e non frequentavo ambienti di scrittori. Ho iniziato a scrivere romanzi a vent’anni, ma solo per me. Penso che poi si desideri sempre essere letti, e così è stato anche per me. Sono felice di essere diventata una scrittrice, anche perché sono pochi gli autori che vivono di solo scrittura, in Germania circa il 5 % del totale.
Avevi già in mente tutta la trama de “La verità” prima di iniziare a scrivere il romanzo?
Alcuni scrittori pianificano tutto il romanzo che stanno per scrivere nei minimi dettagli, prima di iniziare a scriverlo. Altri scrivono giorno per giorno d’impulso. Io mi trovo in mezzo a questi due estremi: parto dall’idea principale, decido luogo e tempo e conosco anche la fine: so già dall’inizio quale sarà l’ultima frase del romanzo. Ammiro molto chi scrive senza sapere come va a finire. Io invece non potrei iniziare un romanzo se non ho già in mente un finale convincente. Devo sapere già all’inizio cosa proverà il lettore alla fine. Poi durante il percorso posso inserire delle svolte o anche nuovi personaggi.
Leggendo “La verità” si ha l’impressione che il crimine più grave commesso nella storia sia stato quello dei due coniugi quando hanno smesso di comunicare fra loro. E’ così?
E’ vero: non c’è alcun crimine vero nel romanzo. Il mio è un libro sulle relazioni umane, si tratta di una storia d’amore. Nella coppia c’è una mancanza di comunicazione, ci sono molte incomprensioni. Il troppo silenzio fra i due protagonisti crea molti fraintendimenti. Alla fine non c’è una violenza concreta ma l’impossibilità di provare empatia: se i due protagonisti avessero comunicato l’uno con l’altra, il mio romanzo sarebbe finito dopo 10 pagine. Il mio romanzo mostra come nessuno possa capire cosa prova realmente l’altro se non si mette nei suoi panni. Esistono tante verità perché tante sono le interpretazioni, non ricordo chi disse “ Non vediamo il mondo come è ma come vogliamo che sia”. Anche i nostri ricordi con gli anni si modificano: magari ricordi scolastici non brillanti che poi ricordiamo in modo diverso.
Qual è stato l’aspetto più complesso nella scrittura del tuo ultimo romanzo?
Nella scrittura di un romanzo c’è molto lavoro artigianale ma anche strutturale. Personalmente ho dovuto imparare a scrivere in viaggio, perché quando ho iniziato “La verità” stavo girando per promuovere il mio romanzo precedente “La trappola”. La sfida più importante per me è creare un segreto che si scioglie solo alla fine, dissemino particolari e dettagli che però il lettore capirà solo alla fine. Il finale per me deve essere sorprendente. A prima vista può sembrare che si possa intuire il finale ma non è così. Ho usato due prospettive diverse, quella di Sarah e quella dello Sconosciuto, l’ho fatto perché è legato al tema della verità. Entrambi i personaggi infatti valutano diversamente i fatti. Ho pensato che sarebbe stato emozionante se prima il lettore avesse creduto a Sarah, il personaggio buono. Poi inizio a inserire il personaggio dello Sconosciuto a poco a poco, con brevi capitoli. Ci tenevo che il mistero rimasse tale fino alla fine e per questo ho scritto prima tutti i capitoli in cui racconto il punto di vista di Sarah e poi ho scritto i capitoli con i punti di vista dello Sconosciuto per inserirli successivamente.
Perché citi il saggio “L’arte della guerra “ di Sun Tzu nel tuo romanzo?
Nel mio libro sembra che “L’arte della guerra” arrivi con lo Sconosciuto in modo casuale, invece io penso proprio secondo il proverbio che “In amore e in guerra tutto è permesso”. Volevo che lo Sconosciuto fosse pronto a una vera guerra, anche se solo psicologica, con Sarah, e in fondo si tratta proprio di una storia d’amore.
C’è un passo che preferisci nel tuo romanzo e perché?
Una scena che è piaciuta molto ai miei lettori è stata quella in cui Sarah porta la suocera Constanze davanti allo Sconosciuto per rivelargli che Philipp, suo figlio, è morto. Ho investito molto in quel dialogo, che ho costruito per lungo tempo, e infatti i miei lettori si divertono molto quando leggono quel passo. Il mio passaggio preferito è invece quella dell’eclissi di sole all’inizio, quando Sarah cerca di dire addio al marito scomparso. E’ molto simbolica e, al contrario dell’altra, mi è uscita con estrema semplicità. Dopo il primo romanzo sentivo molto il peso dell’aspettativa verso il mio secondo libro, e il fatto di essere riuscita a scriverne l’inizio in modo semplice e naturale mi ha aiutato molto nella stesura di tutto il romanzo.
Pensi che lo stile di scrittura della crime fiction sia differente quando è una donna a scrivere piuttosto che un uomo?
Non saprei, ci sono scrittori di thriller che hanno una grande capacità introspettiva, così come le scrittrici, a volte, sanno essere brutali nelle descrizioni quanto gli uomini. Credo che quando si scrive si devono provare le stesse sensazioni traumatiche di ogni personaggio che si crea, io per esempio, ho dovuto sentirmi come una madre descrivendo Sarah, anche se non lo sono.
Ma tu pensi che ci sia una sola verità che può essere manipolata, o ci sono molte verità?
Dipende molto dal tipo di menzogna che viene detta, se riguarda una realtà concreta, un fatto accertabile, se riguarda un’azione compiuta da una persona. Nelle verità astratte, invece, che riguardano amore, sensi di colpa, ecc, ci sono più verità: un esempio nel romanzo è l’incidente nel bosco. Ci si domanda di chi sia la colpa dell’incidente, se di Sarah che aveva bevuto troppo, se di Philipp che parlava, della persona che attraversava la strada. Come scrittrice mi sento di dire che la verità è relativa.
Secondo te ci sono bugie che non possono essere perdonate? E credi che sia meglio essere felici nella menzogna o sapere la verità a ogni costo?
Ci sono sicuramente bugie che non possono essere perdonate, ma dipende anche dall’importanza della bugia, dalla sua motivazione e se viene scoperta o confessata. Tutti noi diciamo poi piccole bugie innocenti per proteggere qualcuno, sono quelle che chiamiamo bugie bianche. Io non credo al tema hollywoodiano di due persone che si incontrano, si innamorano e vivono felici e contente per tutta la vita. Ho scritto alla fine de “La verità” che l’amore non è un sentimento, ma un organismo che ha fame e sete, che può crescere ma anche ammalarsi e guarire o morire, perché lo penso veramente. L’amore è frutto di molto lavoro, e si deve continuare a lavorare sul rapporto anche dopo trent’anni che si vive insieme.
Ti è capitato di ricevere delle critiche sulla tua scrittura riguardo questo romanzo o il precedente?
No, ma devo ammettere che non leggo molto le recensioni. Quando ho finito il libro ho pensato non certo di avere scritto il miglior libro del mondo, ma il libro migliore che potessi scrivere in quel momento, e ne sono stata contenta. Un artista sa quello che crea, perché crea qualcosa in cui crede. Forse per un attore è più difficile ricevere critiche rispetto a uno scrittore, perché nell’attore l’autore e il personaggio si fondono. Devo ringraziarvi perché mi hanno fatto varie interviste per questo libro, ma stasera ho risposto a domande davvero inaspettate e interessanti, grazie davvero!