L’angioletto



George Simenon
L’angioletto
Adelphi
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Sin da bambino Louis Cuchas non aveva mai reagito alle cattiverie. Anche quando si presentavano sotto forma di piccole grandi crudeltà dei suoi coetanei a scuola. Lui assorbiva tutto e andava avanti per la sua strada. Impossibile, in un bimbo di quell’età, notare la schiena dritta che si celava dietro a questo comportamento. I suoi fratelli e le sue sorelle si erano abituati a considerarlo quale semplice tratto della personalità, i compagni di classe come spunto per irriderlo, affibbiandogli con sarcasmo il nomignolo di “angioletto”. A Louis, esile e solo qualche centimetro in più per non essere considerato un nano, bastava l’amore della madre, venditrice ambulante di frutta e verdura e incurante verso i tanti figli della promiscuità famigliare che creava il suo modo di vivere in casa dove, nell’unica stanza in cui vivevano, si abbandonava a un piacere dietro l’altro con un uomo dopo l’altro. La famiglia cresceva poverissima e disgregata in rue Mouffetard a Parigi, ma questo era il catalogo. L’invasione dei tedeschi durante la Seconda guerra mondiale e la crescita della prole avevano poi fatto il resto nell’arrivo del caos più totale. Eppure, neanche una volta diventato adulto e celebrato come pittore tra i più famosi e quotati di Francia, Louis cambiò mai. «Non lo so», era la risposta che più spesso offriva ai suoi interlocutori, condita con una mitezza che nascondeva alla perfezione l’intelligenza che la alimentava. Scritto nel 1964 in Svizzera e apparso al pubblico l’anno successivo, L’angioletto fu, come si legge nella breve presentazione, il libro prediletto del suo autore, Georges Simenon, l’opera che mise fine a un periodo particolarmente difficile per lo scrittore. Che dichiarò: «Per la prima volta in vita mia sono riuscito a scrivere un romanzo il cui protagonista è assolutamente sereno». Un libro quindi da “fiumi azzurri e colline e praterie dove corrono dolcissime le mie malinconie” come in uno dei più immortali versi del Gran Mogol nella voce di Lucio Battisti? Affatto. Perché nelle righe che compongono il romanzo palpita una furia, una intensità impetuosa al limite della brutalità. Perché Simenon, il più grande scrittore del XIX secolo, fece come il suo Louis Cuchas: celò il nero dentro l’arcobaleno. Lo svelano i malefici del tempo, gli sgarbi e le ammaccature gratuite della vita, il ghigno di un destino che pare essere scritto troppo in fretta (e per di più dagli altri), il rovescio del fato stesso che colpisce come neanche un cazzotto nello stomaco. E, fino alla fine, il libro è capace di far correre i decenni della vita di una famiglia parigina senza farci accorgere delle pagine che passano. Signori, è Simenon.

Corrado Ori Tanzi

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