Legami del passato – capitolo 2

Ecco il secondo capitolo del romanzo. Il primo lo trovate qui.

Capitolo 2

Tante domande vorticano nella mente di Michele. I suoi occhi tornano continuamente sul cellulare di Filippo, per poi passare sul corpo dell’amico. Ormai rigido, pallido, immobile. Solamente adesso realizza cos’è successo. Solamente adesso, per Michele, ossessionato dalla morte dell’amico. Tutto il resto passa in secondo piano.

Filippo è morto … Filippo è morto … Perché? Chi lo ha ucciso prima che potesse rivelargli quello che aveva scoperto? Perché di questo è certo: Filippo aveva scoperto qualche cosa, ma non aveva fatto in tempo a condividerla con lui.

Quello che più pesa sul suo animo è la sensazione, orribile, che lui avrebbe potuto evitare il sacrificio del suo più caro amico; nello stesso tempo, il dolore non riesce a distoglierlo dal pensiero che quel sacrificio possa significare una sola cosa: la pista seguita era quella giusta. Qualcuno lo aveva osservato, ed ora cercava di spaventarlo.

Ma chi?

Mesi prima, quando era cominciato tutto, Filippo lo aveva ammonito. Si trovavano fuori da un casolare sperduto, in campagna, non troppo lontano dalla città. L’amico, accendendosi la consueta sigaretta gli aveva detto:

“Michele, ho l’impressione che questa sia una storia più grande di te.”

“Non mi importa” aveva asserito lui con convinzione “ora voglio sapere, andare fino in fondo.”

“Tu non capisci” aveva continuato l’amico “il passato è passato, non si disturba.”

“No Filippo, qui sei tu a non capire. Questo passato vuole essere disturbato, è lui che mi ha cercato … O ti sembra solo una coincidenza?”

“Fa’ come credi” aveva concluso Filippo “ma sappi una cosa: dove vai tu vengo anch’io o non se ne fa nulla.”

I due sorrisero, esattamente come da bambini, quando in quel casolare di campagna passavano giornate intere a giocare.

Anni più tardi, erano ancora insieme, quando Michele aveva ricevuto la notizia della morte del nonno materno.

“Michelino, caro, qualcuno si deve occupare di quel posto prima che vada in rovina,” gli aveva telefonato sua madre una sera “di certo lo metteremo in vendita, perché nessuno è interessato a viverci … Se potessi andare a sistemare le cose del nonno… vedi un po’ tu, io non me la sento proprio …”

Un legame d’affetto a quell’infanzia lontana, a quella pace di giorni tranquilli passati col nonno e ai suoi burberi ma sinceri insegnamenti aveva portato Michele, accompagnato da Filippo, fino al casolare. Tra vecchi libri impolverati, stoviglie che raccontavano di un tempo ormai passato, oggetti della famiglia, Michele aveva aperto una cassettiera di legno massiccio.

E lì, mentre esaminava i vestiti che ancora gli parlavano del nonno, l’aveva trovata: non era un semplice pezzo di carta ma, conservata con cura, una foto, ormai ingiallita dal tempo. L’aveva guardata: una bambina molto piccola in braccio ad una donna, semplice ma sorridente. La donna era giovane e la bambina poteva avere qualche settimana. Sul retro della foto si leggeva, scritto con una scrittura femminile, curata: “Anja, gennaio 1945”. Qualcuno vi aveva aggiunto con un inchiostro sibillino: “Perdonami. Tenterò di farmi perdonare. Se non ci riuscirò io, sarà Michele a farlo per me”.

Sarà Michele a farlo per me… Sarà Michele a farlo per me…

Nella sua mente, ora, si ripetono quelle ultime parole, proprio come uno di quei dischi che si incantano, che si possono vedere nei film di una volta. Sarà Michele a farlo per me. E ancora si ripetono, e avrebbero continuato a ripetersi all’infinito.

“Mi scusi, Lei…” Quanto gli sembra inopportuna quella voce, che interrompeva l’armonia creata dal suono delle parole scritte dal nonno e dissolto l’immagine della foto!

Chiude gli occhi per tornare nuovamente a quei ricordi familiari, tranquillizzanti, piacevoli, ma un “Mi scusi”, stavolta più deciso, lo riporta definitivamente alla triste realtà. Di fronte a lui, la scena è cambiata. Oltre all’amico disteso per terra e ai paramedici, ci sono una serie di poliziotti.

“Mi dica” dice Michele dopo qualche istante, rispondendo alla domanda di uno dei tanti poliziotti.

“Chi è lei? Cosa ci fa qua? Che rapporti aveva con il soggetto?” e un’altra sfilza di rapide e fredde domande. Con difficoltà risponde.

Il poliziotto sembra essersi calmato, forse ha compreso la reale sofferenza di Michele.

“Ma perchè siete qua?” domanda Michele, improvvisamente, dopo essersi reso veramente conto della situazione.

“Vede, non dovrei dirglielo… Ma la vedo molto sconvolta. Il suo amico.. è stato strangolato.”

Gelo.

“Ora però deve andarsene. Non ha toccato nulla, vero?”

“No” dice Michele meccanicamente, quasi senza accorgersene, girandosi di nuovo verso il cadavere dell’amico.

“La ringrazio, per ora è tutto. Se mi può lasciare il suo numero, sa…”

“3468647406” scandisce Michele. Gli sembra ancora di avere davanti agli occhi lo schermo del cellulare di Filippo, di leggere il suo numero tra le ultime chiamate effettuate.

Filippo. Morto. Strangolato da chissà chi.

Michele si accorge di avere ancora in mano quel cellulare. Si rende conto di aver violato la cosiddetta scena del crimine. Di aver dato una falsa testimonianza, anche se involontariamente.

Che fare?

Dicendo la verità, avrebbe aggravato la sua stessa situazione. Trovandosi lì, sicuramente verrà catalogato come sospetto. Inoltre, verrà accusato per aver contaminato le indagini.

Pensa a tutto questo Michele, e non sa come cavarsela.

Forse non ha notato nulla, pensa Michele. E ne approfitta per infilare il cellulare di Filippo in tasca.

“Mi dispiace per il suo amico…” conclude il poliziotto porgendogli la destra.

Michele non risponde, gli stringe la mano e si limita a fare un cenno con la testa.

E se ne va.

Esce dal cupo appartamento e si dirige a casa: ha intenzione di scovare tutte le tracce possibili che lo possano ricondurre alla sera prima e ai fatti che vi sono accaduti. E’ quasi sicuro che abbiano a che fare con l’omicidio di Filippo . Sì, perché di omicidio si tratta. Il fatto che tutto, in casa dell’amico, fosse in ordine, come aveva potuto notare, forse significava che l’assassino era un conoscente di Filippo.

Immerso in questi pensieri, non si accorge nemmeno di essere entrato nell’atrio del suo condominio, da cui era uscito un’ora prima, ignaro della tragedia.

Prende l’ascensore, preme il solito bottone: gesti così meccanici, ma che gli risultano strani, come se la sua mente si fosse improvvisamente accorta di compierli. “Colpa dello shock” si dice, accantonando il pensiero.

Arrivato al piano, esce come al solito. Mentre la porta dell’ascensore si chiude dietro di lui, giunge al suo orecchio una discussione concitata sulle scale. Di colpo, silenzio. Sembra che il rumore dell’ascensore abbia interrotto i due interlocutori. Ma Michele non ha né tempo, né voglia di preoccuparsene. E’ stanco, stravolto dagli ultimi avvenimenti. Tutto ciò che vuole è fare il punto della situazione, trovare un nesso logico, sempre che ce ne sia uno, tra la sera precedente, la morte di Filippo… e Anja.

Di fronte alla porta del suo appartamento fa per infilare la chiave, ma… si accorge che la serratura è stata forzata, la porta è aperta. Un pensiero balena velocemente nella sua mente, come un fulmine.

Oggi non è proprio la sua giornata.

Ritorna subito indietro, ma il suono dei suoi passi deve averli spaventati. Stanno scendendo le scale, correndo all’impazzata. Sempre più convinto che la giornata non finirà di regalargli sorprese, rientra in ascensore e preme il tasto del piano terra: trenta secondi dopo, esce nuovamente nel piccolo atrio antistante l’ingresso, giusto in tempo per scorgere due tipi che sbattono di corsa la porta dello stabile.

Ora si decide: se vuole risposte, deve cercarle .

Appena fuori dal condominio comincia a correre, sotto un sole che, volendo, potrebbe fondere l’intera città: i suoi obiettivi hanno svoltato subito a sinistra e si dirigono verso un furgone grigio metallizzato. Prende nota mentalmente del numero di targa prima di saltare sulla sua Vespa, girare la chiave e partire in coda ai due. Pensa a un pedinamento discreto, poi annulla l’ipotesi e propende per una corsa testa a testa: la città ha molti incroci e anche una Vespa potrebbe farcela. Passano davanti al parco, lo costeggiano fino in piazza, senza raggiungere mai una velocità elevata; alla rotonda, però, il furgone ingrana la quarta e comincia ad accelerare. Ha fatto bene i conti, visto che è l’unica zona di traffico leggero. Guadagna terreno: ancora un po’ e li perderà di vista. Poco dopo, sembra che gli inseguiti si siano volatilizzati.

Persa questa opportunità di ricavare qualcosa dalla giornata, si dirige verso la centrale di polizia, dove arriva cinque minuti dopo: dichiara targa e aspetto del furgone, dopo di che esce per fare colazione (la ricerca durerà alcuni minuti, gli hanno detto). Anche se è dall’altra parte del globo, ha deciso di andare “da Gianni”, il solito baretto d’angolo, dove prende il caffè ogni mattina. Si siede al solito tavolo, non serve nemmeno che ordini: il barista conosce bene i suoi gusti, un macchiato ristretto e una brioche alla crema. Dopo dieci minuti si alza per pagare ed esce nell’afa. Nota subito una busta voluminosa appoggiata sulla Vespa; sospirando, la prende e rientra nel bar. “Un altro caffè, Gianni, e fammelo corretto”. Si prospetta una lunga giornata, pensa Michele.

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