L’isola delle anime di Piergiorgio Pulixi vince il Premio Scerbanenco 2019 – La nostra intervista

61467095_10219080843597923_5275764717749534720_nLa Giuria Letteraria del Premio Giorgio Scerbanenco, composta da Cecilia Scerbanenco (Presidente), Maurizio Ascari, Alessandra Calanchi, Valerio Calzolaio, Luca Crovi, Loredana Lipperini, Sergio Pent, Ranieri Polese, Alessandra Tedesco, Sebastiano Triulzi e John Vignola assegna a maggioranza il Premio Giorgio Scerbanenco 2019 al romanzo

L’ISOLA DELLE ANIME
di Piergiorgio Pulixi (Rizzoli)

con la seguente motivazione:

“La trama investigativa del romanzo si coniuga con ottimo stile e partecipazione emotiva alla memoria culturale sarda e alle descrizioni geografico-antropologiche, con una efficace caratterizzazione dei personaggi che travalica il periodo storico e l’attualità. Il contrappunto delle sottotrame – di sapore criminale ma anche connotato da una intensa partecipazione familiare ed epicamente ancestrale – trova il preciso punto d’incontro in un disagio quasi cosmico che investe non solo il presente ma anche il tragico passaggio di consegne del tempo, tra credenze popolari e nuove forme di sconfitta esistenziale”.

Riproponiamo l’intervista che Piergiorgio Pulixi ci aveva concesso in occasione dell’uscita di L’isola delle anime – Rizzoli

Ciao Piergiorgio,il tuo sembra essere il ritorno a casa dopo un lungo viaggio, letterario in questo caso. È così?
Dovevi scrivere altro prima di essere pronto a parlare in questo modo della tua terra?
Sì, penso che sia stato necessario maturare come autore prima di arrivare a parlare della mia terra. Quando vuoi raccontare qualcosa che ami profondamente, credo che sia necessario allontanarsi anche fisicamente per acquisire un nuovo sguardo, meno condizionato dalla quotidianità. È ciò che ho cercato di fare in questi anni di “esilio” dall’Isola; avevo sempre il desiderio di scrivere qualcosa ambientato qui, ma al tempo stesso avevo bisogno di trovare la storia giusta e restituire limpidezza al mio sguardo. Sono trascorsi undici anni dall’ultima volta, ma credo che sia valsa la pena aspettare tutto questo tempo.

unnamed (1)Partiamo dall’esergo di D.H. Lawrence che paragona la Sardegna alla libertà. In cosa raffigureresti la libertà di questa terra costretta dal mare?
La costrizione del mare implica necessariamente dei limiti, delle restrizioni fisiche, quindi malgrado il primo impulso sarebbe di dire che è una libertà tutta fisica (perché è quella la sensazione che questi cieli vertiginosi e queste praterie sconfinate ti regalano) ma in realtà è una libertà mentale. È molto difficile da spiegare e di contro è immediatamente percepibile se uno si trova lì: la natura, che è la vera regina dell’isola, ti costringe a fare i conti con te stesso, e da questo confronto non puoi che uscire libero: libero da tutti quei limiti che ti autoimponi. Forse la raffigurerei così.

L’isola delle anime sembra essere il tuo libro più “filosofico”, tutta la prima parte è densa di immagini e significati che rimandano a altro e a oltre..
Lo è. È un libro sul sacrificio, sul modo in cui scappiamo dai nostri demoni e dai nostri sensi di colpa, su come un’ossessione possa arrivare a condizionare una vita intera, sulla maternità… Sono tanti i temi che il romanzo affronta. Credo che mai come in questo momento la letteratura noir debba rinnovarsi senza avere alcun timore di sconfinamenti in altre arene letterarie, anzi: vedo nell’ibridazione tra generi letterari diversi, nella profondità e nella complessità dei personaggi il futuro di questa narrativa.

Effetto che hai ottenuto anche portando il linguaggio a un livello superiore, con una apprezzabile ricerca stilistica. Su cosa hai lavorato di più? Era una necessità tua o anche la storia lo richiedeva?
Ho cercato di trovare la lingua dell’isola. È lei in qualche modo a raccontare e a condizionare la vita e le vicissitudini dei personaggi. Doveva essere una lingua suadente ma forte, che andasse a parlare direttamente alle viscere, ai nostri sensi più primordiali e feroci. Non antepongo mai le mie necessità autoriali alla storia: è sempre lei a dettare le regole. In questo caso, questo tipo di storia necessitava di un linguaggio più lirico soprattutto nel primo quarto del libro. Poi il ritmo del thriller prende il sopravvento anche sullo stile, come è giusto che sia.

Quanto hai lavorato per dosare l’uso del dialetto?
Parecchio. Non è stato per niente facile, e devo ammettere che nella prima stesura avevo esagerato e ho dovuto rimetterci le mani da capo. Il sardo è una lingua splendida, carnale, poetica, e sono stato tentato dal contaminare il romanzo anche a livello linguistico. Alla fine, però, mi sono reso conto che per molti lettori sarebbe stato incomprensibile, vista proprio la natura complessa di questa lingua; così ho lasciato soltanto quelle parole che secondo me davano una forte identità o ai personaggi o ai luoghi.

Il silenzio della natura è un’immagine che torna più volte nel libro Cosa racconta il silenzio della tua terra?
È come un canto: racconta. Sono silenzi che ti riecheggiano dentro e smuovono qualcosa. Sembra anche qui qualcosa di molto astratto o metafisico, ma in realtà ti portano ad avere una superiore consapevolezza di te in quanto persona, una tua alterità in quanto essere umano in mezzo a lande o campagne in cui prima di incontrare un’altra persona a volte devi percorrere chilometri e chilometri. Chilometri fisici e mentali.

Anche l’acqua torna spesso. A un certo punto parli di “Libertà liquida”, cosa intendi?
Nel caso specifico, la caratteristica dell’acqua di adattarsi e prendere la forma dell’oggetto o del contenitore in cui viene versata; se traduci tutto questo in un ambito sociale intendo la libertà di adattarsi alle circostanze con elasticità mentale, senza avere troppe sovrastrutture che ti condizionano e che quindi ti imprigionano, ti legano. L’acqua, con le sue caratteristiche fisiche e chimiche, ha questa libertà. Nell’isola l’acqua è sempre stata considerata sacra, una divinità, perché abbiamo il paradosso di essere circondati da un’infinita massa d’acqua, ma di essere in alcuni anni uno dei territori italiani con il più alto grado di siccità. Per questo è stata considerata da sempre, anche nelle epoche più ancestrali, un bene estremamente prezioso, per cui si era disposti a tutto. Anche a uccidere.

61162551_427768804468018_1005841895743553536_oNel libro si parla molto di miti e leggende, della dea madre, di antichi riti che ancora sono visibili nelle feste tradizionali. Quanto sono ancora vivi e sentiti in Sardegna al di fuori dei giorni a loro destinati?
Sicuramente molto di più nell’entroterra sardo, ma molto meno di una volta, a causa dello spopolamento dei paesi dell’interno e della fuga dei giovani all’estero, un problema molto sentito nell’isola. Questo inevitabilmente porta a un appannamento delle tradizioni, e spero con tutto il cuore che alla lunga non si traduca in una loro scomparsa o rimozione. Il romanzo – molto umilmente – vuole essere in qualche modo anche un memento di quello che siamo stati, perché dimenticare significa perdere delle sostanziali parti di noi. Quando una cultura perde le proprie radici identitarie è sempre un pericolo. La Sardegna è sempre stata un porto affacciato sul Mediterraneo e ha fatto della commistione tra culture diverse la sua forza, mantenendo sempre intatta però una forte identità isolana. Questo è ciò che ci ha resi quello che siamo.

Quanto è importante “la memoria della terra?”
Credo che sia fondamentale, e mai come in questo momento tutti quanti ce ne stiamo accorgendo. Abbiamo tradito la “terra” e ne stiamo iniziando a pagare le conseguenze. Noi non siamo agenti esterni alla natura, ma siamo una sua componente fondamentale, un anello della catena. Sciogliere quest’anello provoca più danni che altro. Credo che sia il momento di riappropriarci di un vero e sano rapporto con la natura. Il romanzo tratta anche questo tema che mi sta molto a cuore.

I giovani oggi hanno dimenticato quelle radici? Quale è stata la generazione che più ha rotto con il passato?
Qualche anno fa ti avrei detto i ragazzi che avevano vent’anni negli anni ʼSessanta o ʼSettanta, sedotti da una riconversione industriale dell’isola, o meglio: dall’illusione di questa riconversione che alla lunga ha portato soltanto inquinamento, malattia, desolazione e disillusione. Oggi invece sono costretto a dirti che è quella attuale, la generazione “digitale”, che inevitabilmente è portata a vivere molto meno il territorio, soprattutto tutta quella porzione di territorio al di fuori delle città. Questo non solo è un peccato, ma credo anche che sia dannoso per le persone. Però, ritengo anche che proprio in virtù di questo contatto più stretto con la natura questa nuova generazione stia maturando una coscienza ambientale o ancora meglio una coscienza di “protezione ambientale” che le generazioni precedenti non avevano. Spero quindi che si arrivi presto a un’inversione di tendenza, perché viviamo in un Eden e sarebbe davvero da folli rinchiudersi in casa mentre questo Eden va a fuoco.

Devo ammettere di aver googlato Nuraxia. Non ne avevo mai sentito parlare…
Nuraxia è un termine che indica il sapere degli antichi sardi, e presuppone che tutti gli esseri viventi siano un’espressione di un’unica coscienza, una sorta di divinità panteistica; e in virtù di questo legame, tutti gli esseri siano in uno stato di interscambio spirituale. Io non credo in niente di tutto ciò, ma sono molto preoccupato perché nell’isola esistono persone che stanno portando avanti percorsi di indottrinamento a mio avviso pericolosi: ci sono sette e santoni che ritengono che le domus de janas, i nuraghi, i menhir e altra architettura funebre e monumentale di epoca nuragica e pre-nuragica possiedano dei poteri terapeutici: questo confine tra superstizione, cultura e tradizione secondo me non deve essere mai superato, altrimenti si corre il rischio di scadere nella cialtroneria più becera. Queste persone, che plagiano malati di tumori e altre malattie gravi, convincendoli che abbracciare un menhir li guarisca, andrebbero trattate per quello che sono: criminali. Nel romanzo ne parlo, perché per quanto meno critico rispetto ad altri problemi dell’isola, è comunque un problema. Ci sono tante storie di vite umiliate, distrutte e disastrate per via di questi “sciamani nuragici”: chi porta avanti questa fraudolenta rappresentazione della realtà e della “medicina naturale” andrebbe dato in pasto al buon vecchio Mazzeo.

C’è una vena polemica quando parli del Dio industriale. Sarebbe stato possibile resistere o il progresso passa necessariamente per l’industria?
Bisogna essere realisti: in quegli anni, vista la condizione socio-economica in cui stagnava l’Isola non sarebbe stato possibile resistere a un canto delle sirene così soave. Ci era stato prospettato un sogno troppo bello per non crederci. La cultura industriale è stato un passaggio (probabilmente obbligato) della Storia umana. Abbiamo visto tutti dove ci ha portato e dove continua a portarci, e tutti, chi più chi meno, ne stiamo pagando le conseguenze. Alcuni modelli economici non sono sostenibili per l’ambiente, per le comunità e per le persone. Siamo abbastanza evoluti per trovare soluzioni meno invasive.

Dialoghi concisi e taglienti permeati di black humour, decisamente e piacevolmente caustici. Quanto e come si lavora sui dialoghi?
I dialoghi sono l’anima dei personaggi. Quando parla un personaggio “è”, diventa vivo. Ho sempre curato tantissimo questo aspetto. In questo caso ho innervato i dialoghi di umorismo e un po’ di sarcasmo, perché trovo che in questo genere di storie sia necessario stemperare la tensione e strappare qualche sorriso ai lettori. Si lavora studiando i migliori dialoghisti sulla piazza: i nostri Fruttero& Lucentini, Elmore Leonard, Tana French, Joe Lansdale. L’orecchio per i dialoghi può senz’altro essere allenato. Anche qui la differenza la fa la mole di letture di un autore.

C’è qualche simbologia nascosta nei nomi? Penso a Eva Croce.
In Eva di sicuro. Della Eva biblica mi interessava il parallelismo con la cacciata dall’Eden: anche la mia ispettrice viene cacciata da Milano per colpa di un peccato originale che è al tempo stesso un sacrificio, quindi una “croce” che si porta in spalla. Eva Croce è una donna normale, colpita duramente da una tragedia personale. Incarna il coraggio, il sacrificio, la determinazione e la forza delle donne, costrette ad andare avanti e a contare – molto spesso – soltanto sulle proprie forze. Eva è così. È un’esule che può contare soltanto su se stessa. L’Isola diventerà il suo Purgatorio di espiazione per poter rinascere a nuova vita.

Il tuo romanzo ha due ritmi diversi, più lento e “naturale” nella prima metà, più concitato nella seconda. É una cosa voluta?
Certamente. La prima parte è più un’immersione nella descrizione dei luoghi e dei personaggi, visto che si trattava di un nuovo scenario e nuove protagoniste. Dopo un po’ l’indagine poliziesca entra nel vivo, il cold-case da freddo diventa bollente e si inizia a correre a perdifiato verso il finale.

Un noir ambientato in Sardegna può prescindere dalla natura ostica e crudele dì quella terra?
Potrebbe, certo. Ma significherebbe sprecare uno scenario e delle suggestioni ineguagliabili.

A un certo punto dici che i sardi sanno essere molto macabri. È forse riconducibile alla loro antica idea di ciclità e circolarità tra vita e morte?
Anche, certo, ma soprattutto conserviamo gli istinti di una ferinità ribelle. La natura forgia gli animi dei suoi abitanti. Nel romanzo cerco di spiegare come e perché.

L’isola delle anime ,è anche un libro che parla di limiti superati, di argini rotti, di sensi di colpa e di fantasmi di cui liberarsi. C’è un messaggio tra le righe?
Il messaggio è che se il dolore e la perdita sono inevitabili, il permanere in quella condizione è transitorio: sta a noi accettare le nostre colpe e abbracciare la consapevolezza di non poter essere persone perfette, solo così quella “permanenza nel dolore” sarà una breve parentesi nella nostra vita.

Che caratteristiche caratteriali della tua terra ti riconosci ?
Lo spirito indomito. E, cresciuto in una terra di silenzi, il rispetto per le parole che peso con grande cura prima di pronunciarle.

Grazie Pier e
A si biri

 

 

 

Cristina Aicardi

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