Non riesco a immaginare una storia senza sentimenti. Intervista a Fabiano Massimi – Vivi nascosto

In occasione dell’uscita del nuovo romanzo Vivi Nascosto, una nuova indagine del Club Montecristo,Mondadori,   MilanoNera incontra Fabiano Massimi.

Ciao Fabiano. Sei ancora sull’onda del successo di “I demoni di Berlino” ambientato in piena seconda Guerra Mondiale nella Germania nazista, esce il tuo nuovo romanzo ambientato in Italia ai giorni nostri. Com’è stato vivere e soprattutto scrivere in un salto storico e ambientale così grande?
Anzitutto grazie a MilanoNera per questa occasione. È sempre bello rispondere alle vostre domande. Scrivere (o meglio, riscrivere) Vivi nascosto dopo I demoni di Berlino è stato un piacevole diversivo. L’affresco storico cui mi sto dedicando sulle orme dell’ex commissario Sauer necessita parecchio studio e uno sforzo immaginativo a volte intimorente. Poter raccontare di quando in quando il presente è rinfrescante, e rigenerante. Per fortuna il “colore” delle due serie è molto diverso, così non rischio di mescolare i toni e rendere weimariana la Mutina contemporanea o mutinese la Germania degli anni Trenta, far parlare Sauer come Lans e Mutti come Arno…

Il protagonista dei due romanzi storici è Sauer, un commissario di polizia, mentre nel Club Montecristo sono degli ex detenuti. Come dire, i lati opposti della barricata. La sensazione è che per te sia stato importante dare voce anche a chi ha sbagliato, a chi si è trovato dalla parte sbagliata.
È proprio così, per motivi ideali (ideologici?) ma anche personali. Il mestiere che professo da più tempo, il bibliotecario pubblico, mi ha portato anni fa a contatto con il carcere della mia città, un’esperienza indimenticabile e molto istruttiva che volevo rendere sulla pagina. E quale modo migliore che costruendoci intorno un giallo, il genere che affronta il crimine per riportare giustizia ed equilibrio? Solo che nella serie del Club Montecristo la giustizia e l’equilibrio sono in mano a degli ex detenuti, perché nessuno conosce il crimine meglio di un criminale, ma soprattutto perché a chiunque deve essere concessa l’occasione di redimersi e riscattarsi. (Va poi detto che anche il buon Sauer, a ben guardare… Ma non spoileriamo.)

Lans definisce il club Montecristo come un’associazione a non delinquere, infatti è imperativo del gruppo vivere legalmente. Come si può riuscire a reintegrare queste persone in società, vincendo il pregiudizio di “chi sbaglia una volta, sbaglia sempre”, come sostiene invece Cassini?
È una questione molto spinosa, e temo non così sentita dalla società civile, che rimuove il carcere dalla sua quotidianità come se il problema fosse di qualcun altro. Invece il problema di tutti noi, sia perché in carcere potremmo finirci, prima o poi, non è mai detto, sia perché i detenuti sono detenuti per il nostro bene, a nome nostro, e quindi la mano che gira la chiave in ultima istanza è la nostra. Una volta scontata la pena, quelle persone hanno poche strade legali davanti – le associazioni fanno del loro meglio, lo Stato qualche occasione la mette insieme, ma alla fine dei conti se 8 ex carcerati su 10 tornano dentro è perché non trovano un lavoro oltre le sbarre. Le statistiche dicono che se viene dato loro un mestiere già durante la pena, il tasso di recidiva scende drasticamente, da 8 su 10 passa a 1 su 100. Nasce così il Club Montecristo, una società di mutuo soccorso in cui gli ex carcerati si aiutano a trovare e tenere un lavoro, una casa, una rotta nella legalità, promettendo di non usare mai più le loro particolari capacità – a meno che ci sia in ballo la giustizia.

Nel corso del romanzo, ZeroZero, quello più scanzonato degli Ammutinati, sempre con la battuta e la risata pronta, fa una riflessione sul senso di appartenenza, sul fatto di sentirsi parte di qualcosa, di avere un posto nel mondo. Fa parte della nostra umanità fare parte di un gruppo in cui ci sentiamo affini, a nostro agio.
Dicevano gli antichi che l’uomo è un animale sociale, e se vedessero la forma contemporanea della loro intuizione – l’uomo social – credo si spaventerebbero. Noi siamo nati per vivere concretamente in famiglie allargate, in comunità geografiche e di intenti, in associazioni, gruppi, squadre, società. Da soli valiamo ben poco, e possiamo essere spezzati così facilmente (ricordate l’apologo dei bastoncini nella Storia semplice di David Lynch?) Poi certo, famiglie, associazioni e società possono trasformarsi in piccole bolge, ma sempre meglio della solitudine. Sartre diceva che l’inferno è l’altro, e si sbagliava. L’inferno è essere soli. Pensate al senso di estraneità e atomizzazione che perseguita i personaggi di Houellebecq! Il mondo è enorme e non può non fare paura, però basta aggiungere un aggettivo possessivo – il mio mondo – per tornare a sentirsi accolti. In questi romanzi non a caso di fianco al Club Montecristo, tutto maschile, c’è anche un Gruppo di lettura, quasi tutto femminile.

Senza voler raccontare troppo del romanzo, per non deludere i futuri lettori, la soluzione dell’indagine è nei sentimenti, uno in particolare, l’amore e il bisogno di compiacere la persona amata. Ma le emozioni, i sentimenti sono protagonisti dei tuoi romanzi tanto quanto i personaggi.
In effetti credo di non saper immaginare una storia senza sentimenti. Immagino di essere stato segnato dall’incipit di Eureka Street: “Ogni storia è una storia d’amore”. Basta declinarlo un po’, del resto, e l’amore tocca tutto e tutti: amore paterno, amore filiale, amore passionale, amore-amicizia, amore di giustizia. E naturalmente il più puro e contagioso di tutti: l’amore per i libri. In Vivi nascosto la vittima è vittima anzitutto di se stessa, e quando la mano che ha ucciso viene rivelata si finisce per scoprire che aveva ragione Oscar Wilde, un altro che il carcere l’ha conosciuto e cantato: “Every man kills the thing he loves”. Tutti noi uccidiamo ciò che amiamo.

“Vivi nascosto” non è solo il titolo del romanzo, ma anche la condizione di alcuni personaggi. Ad esempio Lans, che da quando è uscito di prigione non è ancora tornato a vivere, ma sopravvive a sé stesso, al suo demone interiore, non è ancora riuscito a tornare quello di prima. Ci riuscirà? E in generale, quando affrontiamo un evento importante (sia positivo che negativo) ci sarà sempre un prima e un dopo?
Eh, ci riuscirà? Chi lo sa. (Io lo so, d’accordo, però a volte i personaggi prendono strade impreviste, ti scombinano i piani.) In realtà non so se tornare quelli che si era un tempo sia, oltre che possibile, raccomandabile. Lans, prima di finire in carcere per qualcosa che non racconta mai a nessuno, e che solo in questo romanzo iniziamo a intuire, era un artista, un pittore molto promettente. Poi per amore di una donna ha fatto quel che ha fatto, è finito dentro per sette anni, ha perso la sua arte (e anche la donna). Ora, grazie ai compagni del Club e soprattutto alla ritrovata amicizia con Arno, sta pian piano riprendendo a dipingere, però è come bloccato, sa cosa deve fare ma non ricorda perché. E se poi alla fine non fosse più in grado di riprendere il discorso interrotto con se stesso? Be’, se il nuovo discorso fosse più interessante, o anche solo più genuino, per me andrebbe bene uguale. Un vaso rotto e ridotto in cocci non tornerà mai intero, si noteranno sempre le linee di frattura, i frammenti mancanti. Forse più che tentare di restaurarlo ha senso rimettere insieme i pezzi in modo nuovo (come fece Sir Evans con i mosaici di Cnosso, per sbaglio). Oppure fare come nel Kintsugi: ricomporre il mosaico con una colla dorata, che le fratture, anziché nasconderle, le esalti. In ogni cosa ci sono delle crepe, diceva Leonard Cohen, ed è proprio da lì che passa la luce.

Anche Arno vive un prima e un dopo. Nel suo caso è la famiglia, una moglie due figli, all’apparenza tutto perfetto, in fin dei conti ha realizzato un obiettivo importante. Ma in parte rimpiange quello che era prima, non l’essere single, ma l’essere spensierato e sentirsi complice con Elsie, quando ancora non erano sposati. E anche lui, come altri Ammutinati, ha una vita nascosta, una situazione che lo sta intrigando sempre più.
Povero Arno. Pensava di essere a posto con tutto – lavoro, casa, moglie, figli, BMW – e invece si è ritrovato sulla strada un vecchio amico, due omicidi e un’ispettrice di polizia seducente come Emma Bovary! Per un uomo incastrato in una routine confortante e insieme debilitante, già solo una tentazione può essere fatale, figuriamoci tre. Così mentre sua moglie dorme il sonno stremato delle madri in carriera, lui indaga in Rete e nella realtà su casi estremi, provando l’ebrezza di una vita da romanzo, finendo spesso al centro di attenzioni che mai si sarebbe sognato di poter ricevere. Non sono solo gli Ammutinati, a dover rigare dritto per non finire nei guai. E a volte la gelosia di una moglie è più pericolosa di una pistola puntata. Anche per lui sono in serbo sorprese e terremoti, in questo libro e poi in quelli a venire. E il fatto che siano commedie gialle non garantisce che alla fine non combini qualche guaio serio…

Gli argomenti che affronti nei romanzi del Club Montecristo sono tematiche serie e profonde, c’è l’omicidio, il reintegro in società degli ex detenuti, il degrado della periferia in contrapposizione alla città che vive di locali ed aperitivi. Ma tu le stemperi con scene di vita quotidiana e situazione quasi comiche (ad esempio il fatto che Lans non passa inosservato al pubblico femminile o Arno che corre a prendere i figli al centro estivo, non citiamo neanche i Thun per non togliere nulla ai lettori) alleggerendo la lettura, che diventa quindi divertente. Serve tanta ironia e auto-ironia quindi per vivere? Come riesci a trasportarla sulla carta?
Si sopravvive solo ridendo. Questo è poco ma sicuro. Il mondo è un posto cupo, cupissimo, se si è costretti a prenderlo sul serio. Mentre rispondo alle vostre domande, qui a due passi da noi, nel cuore dell’Europa, è in corso una tragedia immane che non si sa dove ci porterà. Certi giorni sembra la fine dei tempi, l’Armageddon alle porte. Poi apro Twitter, il mio social d’elezione, e scorro i messaggi di intellettuali, giornalisti e cittadini ucraini che tra un aggiornamento e l’altro postano meme esilaranti: caccia russi intercettati da trattori, dittatori stranieri con tavoli che si allungano all’infinito, soldati nemici che fanno razzia di galline senza sapere che sono imbottite di lassativi… È una cosa che ho visto già studiando la Germania hitleriana: anche in piena guerra, anche sotto il maglio dei regimi più oppressivi, una risata si riesce sempre a strappare, e a volte è proprio quella che salva. Poi ricordo il mio maestro, Umberto Eco, e il suo monito: scherzare, sì, ma sul serio. Pochi argomenti sono gravi come il carcere, e allora ridiamone. Dopotutto, di tanti romanzi sulla guerra scritti nel corso del Novecento, nessuno è rimasto nell’immaginario quanto Comma-22.

È sempre per questo che i nomi dei tuoi personaggi, in questa serie, sono così particolari? Mutina-Ammutinati, Olaf e Oleg, che al contrario sono Gelo e Falò, Marco soprannominato Arno per una vecchia storia fiorentina…
In parte per questo sì, per far sorridere anche con toponomastica e soprannomi (è poi una società segreta, tutti ne hanno uno tranne Lans). Poi, usare nomi particolari rende particolari le vicende, genera un effetto di non quotidianità che mi sta molto a cuore dal momento in cui scrivo d’evasione (qui in tutti i sensi). La città che racconto è per molti versi Modena, la mia città, ma non è precisamente Modena, come la Vigàta di Camilleri non è precisamente Porto Empedocle, o la Macondo di Garcia Marquez non è precisamente nessuna città. È qualcosa di meno o di più, qualcosa di altro che la colloca a cavallo tra realtà e finzione, consentendomi più libertà ma anche, quando ci riesco, più universalità. Lo stesso vale per i soprannomi: tutti noi abbiamo conosciuto un Brus, prima o poi. Se l’avessi chiamato Giovanni non sarebbe né così buffo, né così generale. Siamo dalle parti di quello che gli strutturalisti chiamavano straniamento: cambia anche di poco il tuo sguardo sulla realtà, e la realtà ti sembrerà nuova, più reale che mai.

Tu sei un bibliotecario, sei circondato costantemente da libri e lettori. Quanto è importante per te come bibliotecario, ascoltare i lettori? E quanto ha influito sulla tua attività di scrittore?
Gli scrittori sono una razza afflitta da un male terribile, la sindrome dell’impostore. Stanno tutto il tempo lì a chiedersi: ma io avrò scritto un bel libro? E avrò un talento oppure no? A me questa cosa capita, ma non così tanto, perché il mio vero talento lo conosco da tempo, e non è scrivere né insegnare, ma consigliare libri. Non c’è nulla di più gratificante che trovare il titolo giusto per la persona che hai davanti, e quando quella ti ritorna a trovare dopo un mese con gli occhi scintillanti chiedendone ancora, lì capisci che – tornando a ZeroZero – hai trovato il tuo posto nel mondo. Ma non puoi consigliare se prima non ascolti, e così nel corso degli anni (ormai decenni – ho iniziato nella biblioteca della Scuola Holden vent’anni fa, ora che ci penso) mi sono fatto una certa cultura sui gusti del pubblico. Non posso dire di aver capito cosa piace e cosa no in assoluto, e di certo non ne ho tratto ricette pronte all’uso per confezionare il prossimo best-seller, quelle ricette non esistono, ma una certezza me la sono portata a casa: se tutti lo vogliono, quel libro ha qualcosa. Non crediate ai severi censori di guardia ai Cancelli della Letteratura: i libri che vendono non approfittano dell’ingenuità dei lettori inesperti, né delle capacità esoteriche di potenti uffici marketing. Vendono perché sono soddisfacenti, in qualche modo, a qualche livello, per qualche ragione imperscrutabile a chiunque tranne a chi se li gode senza nemmeno tentare di perscrutare. In altre parole: tutti i libri hanno un valore, il loro valore, e meritano rispetto. Questo, se hai l’ambizione di scrivere, è immensamente liberatorio: vuol dire che per quanto poco interessante tu tema possa essere la tua storia, vale comunque la pena scriverla, perché è la tua, e perché chissà: potrebbe essere anche di molti altri.

Un’anticipazione sui progetti futuri? Quando torneranno gli Ammutinati?
Al momento sto editando il prossimo romanzo storico, che dovrebbe vedere la luce a inizio 2023. Per gli Ammutinati non ci sono ancora date. Il terzo romanzo è in cantiere, la serie ne prevede diversi altri, so dove stiamo andando e mi sembra di sapere anche perché. Soprattutto, ho voglia di mettermici, ma vedremo. Ai lettori decidere se è una strada da continuare subito o più avanti. Il bello dei personaggi letterari è che hanno molta pazienza. Del resto, non sono loro quelli che invecchiano. Arno, Lans, Elsie, Lana, Primo, Azzicca, ZeroZero… Loro rimarranno per sempre giovani. Che invidia.

MilanoNera ringrazia Fabiano Massimi e Mondadori per la disponibilità

 

Lucia Cristiano

Potrebbero interessarti anche...