Un nuovo caso per l’ispettore Proietti
“I bravi scrittori non raccontano solo storie, raccontano mondi. Raccontano cioè uno spazio che non è soltanto fisico, ma emotivo, sociale, umano. Ecco, Luana Troncanetti è una brava scrittrice e racconta un mondo, Roma, che tutti credono di conoscere, ma che pochissimi (compresi gli stessi romani), vedono oltre la pelle ammaliante della superficie.”
Così scrive Andrea Cotti nella sua prefazione e non si può che essere d’accordo con lui nel leggere questa seconda prova di Luana Troncanetti, autrice romana de’ Roma.
Il nuovo caso dell’ispettore Paolo Proietti, che abbiamo conosciuto nel precedente romanzo, “I silenzi di Roma”, comincia in maniera classica. Il fraterno amico Ernesto Di Casio, di professione tassista ma col quale aveva tagliato i ponti dopo una furiosa litigata, è stato trovato alla Garbatella da tre netturbini davanti al cadavere di una ragazza.
Proietti non è di turno, ma si precipita sul posto, avvisato dai suoi uomini. Ernesto appare in stato confusionale e guardando la ragazza continua a ripetere che è stato lui. La vittima si chiamava Prudence, nigeriana, giovanissima e bellissima. La conosceva da tempo, una sua cliente. Qualcuno li ha anche visti discutere e litigare prima che lui si allontanasse per poi ritornare.
Che ci faceva Prudence in quel quartiere di sabato notte dove Ernesto ciclicamente la accompagnava? Verrà fuori che intratteneva rapporti a pagamento con l’attempato avvocato Sburlati.
“A sessantacinque anni suonati sono impazzito per tutta la meraviglia che era. Mi sono innamorato anche della sua fierezza. L’ho persa da tempo la mia dignità quando ho cominciato a comprare il suo splendore. Mi faceva bene, Prudence.”
Ma perché Prudence doveva prostituirsi se ormai si era allontanata da quel mondo e lavorava come baby sitter in casa di due medici benestanti, la cardiologa Cristiana Bellini e l’ortopedico Giancarlo Santi? Cosa nascondeva il suo passato? E di chi aveva paura, come aveva confidato a Ernesto senza però dirgli altro, anzi, chiudendosi a riccio e infuriandosi quando lui le aveva consigliato di andare alla Polizia?
La trama, complessa ma non ingarbugliata, riserverà sorprese e colpi di scena, come nei romanzi noir che si rispettino e non mancherà la denuncia sociale sui corrotti vizi delle nostre opulentissime società, facendoci entrare in contatto con l’umanità dei personaggi, compresa Gabriella, la clochard. E poi Roma, i suoi quartieri lontani dai circuiti turistici e tanto più veri. E la scrittura carnale e densa dell’autrice che tocca punte di lirismo nelle descrizioni e nelle introspezioni dei personaggi, con scene pennellate da veraci dialoghi in romanesco, il parlato nella vita di tutti i giorni.
Così a notte fonda alla Garbatella di fronte al corpo ancora caldo di Prudence, offeso dalla morte. Un quadro fin troppo realistico della deriva intrapresa dalla nostra moderna società che neppure di fronte alla morte violenta di una ragazza, sa dedicarle un momento di autentica pietà e di rispetto.
“Le grandi città hanno il sonno leggero, tengono la luce di emergenza accesa in piena notte come le madri impegnate a risolvere bisogni, pianti, sonni interrotti da incubi improvvisi. Roma non fa eccezione, sono quasi le tre del mattino eppure molti suoi figli hanno gli occhi spalancati. Il coro scomposto delle voci non tiene il volume basso, la curiosità grida più forte del rispetto. Una giovane donna piange senza autentico motivo. Non conosceva la vittima, così ha dichiarato, eppure sembra una prefica sbucata da un poema di Omero. Un agente della volante strappa di mano il cellulare a un ragazzetto che mastica chewing gum e opportunismo. Pensa a nutrice i suoi follower sui social, lui. Ha iniziato a filmare senza ritegno, il piccolo sciacallo, come se il corpo senza vita accanto al sacco di immondizia rovesciato sull’asfalto, fosse quello di una bambola”.
L’ispettore Proietti arriva con Chicca, la sua Moto Guzzi. Sulle spalle grava il peso del proprio passato, che richiama le fattezze di un’altra Chicca, ma questa in carne e ossa.
Proietti “Ha bisogno di vittorie modeste per ingoiare sconfitte”, ma diventa imperativo difendere Ernesto anche da sé stesso. E quando il tassista, riacquistata la lucidità necessaria, ritratterà le proprie ammissioni di colpa, sembra ormai troppo tardi per la macchina della legge che impietosa si è messa in moto per chiudersi sul colpevole perfetto, ma non per Proietti, ben deciso è dimostrarne l’innocenza, ma per farlo deve arrivare alle radici del male, deve conoscere la vittima, sapere tutto di lei, tutto ciò che ignorava finché era in vita.
E Prudence si presenta a lui e al lettore coi suoi tanti nomi e la sua storia, una storia fatta di dolore. Il dolore di chi nasce dalla parte sbagliata del pianeta. Si presenta da morta con parole lapidarie, di pietra.
“Ho avuto tanti altri nomi: negra, puttana, schiava. E frasi per spiegarmi meglio chi fossi: sei la mia vacca. Così, brava. Brava…così, fammi venire! Ho avuto sogni, pochissime carezze. Ho avuto tanti genitori. E ho avuto cinque anni, strillavo come quando scannano le bestie. Mi ha salvata un medico.”
E ancora: “Ho incontrato pochi uomini nella mia vita e troppi maschi. Sembra la stessa cosa ma non è così. Nessun sapone può cancellare quell’odore marcio tra le cosce. Mi è mancata la vita giusta pe sorridere davvero, mi è mancato il tempo di imparare in quale tomba è sepolto il mio cuore. L’avessi fatto, forse adesso sarei ancora viva.”
Il passato di ognuno è come una carta carbone spiegazzata, conserva le tracce di ogni cosa. Prudence aveva un saldo attivo di duecento euro sul conto corrente, ma aveva prelevato prima migliaia di euro. Se intuire da dove arrivavano quei soldi è fin troppo facile, capire perché li aveva prelevati e a chi li aveva dati, diventa più complicato. Non aiutano certo le testimonianze al Centro sociale, e neppure quella di Antonella, la ragazza con cui Prudence divideva il minuscolo alloggio e nasconde quei soldi nel seno. Non la chiama neppure per nome, sembra distante anni luce da Prudence, dalla sua vita, eppure in una foto sorride felice proprio a cavalcioni di Prudence. “Ha le palpebre chiuse e le labbra contente, il vento scompiglia i capelli blu che adesso non appaiono così freddi, il sole fa risplendere la risata della compagna che la tiene sulle spalle. Entrambe in jeans e maglietta e a piedi nudi. Una sola conclusione: Antonella sta mentendo.”
Un finale amaro per una storiaccia dei nostri giorni, cruda e crudele come sole le storie degli invisibili continuano a essere agli occhi di chi non sa vedere. Di chi non vuole vedere.