Pupi Avati, fra la via Emilia e il Midwest : quarta puntata

zederUn autentico capolavoro, degno erede de La casa dalle finestre che ridono e probabilmente legittimo precursore de L’arcano incantatore, è Zeder, diretto da Pupi Avati nel 1983.
Prologo, 1956: a Chartres, in Francia, dopo una serie di morti misteriose avvenute nei pressi di una vecchia villa, un commissario e uno studioso, aiutati da una ragazza dotata di poteri paranormali, scoprono la tomba di un negromante apolide, Paulo Zeder, sinistramente noto per le sue ricerche esoteriche su terreni in grado di mantenere i corpi dei defunti in uno stato di sospensione fra vita e morte.
Bologna, 1983: Stefano, un giovane scrittore, riceve in regalo dalla moglie Alessandra una macchina da scrivere. Esaminandola, scopre che vi è inserito un nastro usato su cui sono leggibili una serie di frasi inquietanti. Ricostruendole, vede comporsi sotto i suoi occhi una lettera e una relazione su terreni particolari dove sarebbe possibile far resuscitare i cadaveri sepolti. Incuriosito, si rivolge a un luminare, senza apprendere granché, poi attraverso un amico poliziotto risale al precedente proprietario della macchina da scrivere, un sacerdote.
Con una certa difficoltà, facendosi largo nel muro di omertà che pare occultare l’intera vicenda, scopre che il prete, don Luigi Costa, ha lasciato i voti e si è trasferito dalla sorella a Rimini. Recatosi sul posto con Alessandra, Stefano apprende che il prete è morto un mese prima in ospedale ma nessuna sa dove sia sepolto. Infine, trova una tomba con il suo nome in un cimitero, ma all’interno non vi è nessuna bara.
In realtà, don Costa è stato, per sua volontà, seppellito poco distante dalla necropoli di Spina, in un edificio abbandonato in cui parecchi anni prima sorgeva una colonia estiva. La verità appare sconvolgente agli occhi sbarrati di Stefano: un team di ricercatori, legati a un’associazione esoterica che pare godere di influenti protezioni, è in attesa della resurrezione del malefico sacerdote, seguendo le pratiche scoperte a suo tempo da Zeder. Testimone impotente dell’evento, Stefano non esiterà a immergersi anch’egli nell’orrore, per restituire la vita all’amata Alessandra, che nel frattempo è stata assassinata dalla banda.
Pupi Avati firma un concentrato di tensione altissima, pronta a esplodere scena dopo scena, un horror tremendo che afferra lo spettatore dalla prima sequenza e non lo lascia più fino ai titoli di coda. Già l’incipit del film è di un formidabile potere evocativo: una donna anziana fissa terrorizzata la facciata oscura di una villa, mentre il vento al crepuscolo scuote i cespugli, quando una mostruosa apparizione la sconvolge al punto di farla morire sul colpo. È solo l’ultima di una serie di vittime legate a quella strana costruzione.
Il professor Meier e un poliziotto compiono un curioso esperimento notturno, aiutati da una ragazza dotata di poteri paranormali che la portano a essere attratta da un particolare punto della cantina. Ritmato da tremolii inspiegabili, voci sussurranti nel buio che sembrano provenire dalle pareti umide e porte che sbattono da sole, l’approssimarsi della ragazza a un preciso angolo del pavimento subisce un’improvvisa accelerazione quando la malcapitata cade e si contorce come tarantolata, poi viene risucchiata da una forza tremenda che le risparmia la vita ma le maciulla una gamba.
Enorme è la capacità del regista di scavare vere e proprie zone d’ombra nelle situazioni più impensabili, come se aprissero passaggi su dimensioni sconosciute e tenebrose. Tale è, per esempio, la casa della sorella di don Luigi Costa, il folle sacerdote spretato dedito alle pratiche esoteriche dell’apolide Zeder: a pochi metri dalla spiaggia assolata di Rimini, una vecchia costruzione fredda, immersa nella penombra, appesantita da un mobilio scuro e massiccio, dove pare ancora aleggiare la presenza dell’uomo che vi aveva abitato. O la sensazione d’angosciosa attesa che sospende il tempo del protagonista, quando sia accorge che qualcuno sta facendo il vuoto attorno a lui, chiudendo bocche prima che parlino (la studentessa pugnalata in una lurida galleria) o rivelando inaspettate complicità nel far sparire le prove che il giovane faticosamente raccoglie. Così un amico poliziotto scompare inaspettatamente per morire in un incidente stradale apparentemente fortuito, e studiosi, medici e preti assumono aspetti imprevedibili e sinistri.
Sconvolto e tuttavia ben deciso a scoprire la verità, il giovane scrittore bolognese (un Gabriele Lavia particolarmente ispirato) non esita ad addentrarsi in una cripta, dove resta chiuso qualche minuto (sembra una citazione di un’analoga scena dell’argentiano Il gatto a nove code), o a sgusciare fra le siepi buie che circondano l’edificio abbandonato della vecchia colonia estiva di Spina, a due passi dalla necropoli, accompagnato da risatine agghiaccianti che provengono dal suolo, non a caso uno di quei terreni “k” studiati dal negromante Zeder.
Ma la sequenza in assoluto più violenta, e in questo Avati si conferma un maestro insuperabile, è proprio quella, senza effetti splatter, in cui la telecamera nascosta nella bara documenta la resurrezione del diabolico don Costa, che prima apre gli occhi e poi spalanca la bocca sdentata in un sorriso mefistofelico. Coadiuvato al meglio dai volti più frequentemente presenti nella sua cinematografia, dal piccolo Bob Tonelli al corpulento Ferdinando Orlandi, fino al famoso doppiatore Cesare Barbetti, il regista orchestra una spasmodica trama destinata a concludersi in un solo modo. Perché ogni fuga, sia quella disperata di Alessandra nel vagone ferroviario vuoto, che quella di Stefano nei cunicoli della colonia non ha senso: si viene ghermiti dall’orrore, come accade quando le braccia di don Costa sfondano le assi della bara e le sue mani afferrano le caviglie dell’inorridito Stefano. In questo senso, Zeder è un film senza speranza, come sarà anche L’arcano incantatore, perché la sottile fiammella accesa al termine de La casa dalle finestre che ridono è stata spenta da un soffio di vento debole come un sospiro.

Pupi Avati,fra la via Emilia e il Midwest continua…

Enrico Luceri

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