MilanoNera incontra Katherine Howe, l’esordiente americana autrice de Le figlie del Libro perduto (Salani), da oggi in libreria. Il romanzo narra la storia di Connie Goodwin, giovane ricercatrice universitaria, che indaga sulle tracce delle sue antenate, alcune streghe processate a Salem nel 1692, è il caso editoriale in cima alla classifica del New York Times e il favorito dei librai indipendenti americani.
La Howe, laureata in storia ad Harvard, vive a Marblehead, nel Massachusetts, una cittadina a nord di Boston, in una casa che risale al 1750. Trascorre le sue giornate leggendo libri e scrivendo, è sposata da sei anni con un ragazzo che ha conosciuto al College durante un corso su Marx, Nietzsche e Freud. E’ una bella ragazza che ama passeggiare con il suo cane, andare a barca a vela e giocare a poker.
Sei una diretta discendente di Elizabeth Howe e Elizabeth Proctor, due donne accusate a Salem durante il famoso processo. Quanto ha influito questa parentela e come ne sei venuta a conoscenza?
Nel 19esimo secolo un mio parente aveva tracciato l’albero genealogico della nostra famiglia e sapevo, fin da piccola, che la mia famiglia proveniva da un’area ben delimitata degli Usa. Poi però, a 15 anni, la sorella di mio padre ha scoperto una parentela con queste due streghe. Una non è stata una sorpresa perché portava il nostro stesso cognome (Howe ndr), l’altra però lo è stata davvero, e io ho reagito come reagirebbe qualsiasi adolescente: “Wow che figata”!
Fino a poco tempo fa questa discendenza ha rappresentato per me nient’altro che un particolare strano che ognuno ha nella propria famiglia, per cui non ci ho molto badato finché non sono tornata a vivere nel Massachussets per motivi di studio. Ricordo ancora quando, un pomeriggio, – io vivevo con mio marito in una casa risalente al 1705- mio cognato mi ha chiesto quando fosse pronto il pranzo. Io ero accanto al fornello, sudata, in mano avevo un mestolo di legno e sul fuoco una gran pentola, e mi sono percepita nel tempo, come parte di uno stuolo di donne che in quel posto avevano compiuto la mia stessa azione nel corso degli anni. Quindi, è stata quest’esperienza, questa sensazione del sentirmi donna nel corso dei secoli, che mi ha portato a raccontare la storia di Connie.
Le figlie del libro è, per l’appunto, anche la storia dei rapporti tra madri e figlie nel corso dei secoli e dei loro problemi di comunicazione. Sophia e Grace, Grace e Connie, Deliverance e Mercy e Mercy e Prudence. T’identifichi con una di queste donne?
Mia madre è estremamente diversa da Grace. L’idea che m’interessava trasmettere in questo romanzo è che noi siamo dei prodotti del momento storico in cui ci troviamo a vivere. M’interessava trattare lo stesso tema, l’incomunicabilità, con congiunture storiche e temporali diverse. Madri e figlie con problemi di comunicazione, ma unite da un forte senso di appartenenza e dalla ricerca di un legame familiare.
Quanto c’è di tuo in Connie, la protagonista? Siete entrambe storiche, avete preparato lo stesso esame..
C’è questa tendenza a pensare che io e Connie siamo intercambiabili, in realtà ci sono degli aspetti superficiali che abbiamo in comune, anche se lei ha gli occhi chiari e io no, ma in realtà, lei è più vecchia di me –oggi avrebbe 40 anni (la storia è ambientata negli anni 90, ndr)- e proviene da una famiglia e un background diverso. Non credo neppure che potremmo andare d’accordo. Il personaggio che mi è più vicino è Mercy, perché è ostinata come me, scappa e si nasconde sugli alberi, insomma è difficile da gestire, un po’ come lo ero io. Connie è una studentessa migliore di me, anche se io mi vesto meglio e probabilmente sono più inserita socialmente di lei.
Gli storici hanno opinioni contrastanti rispetto alle cause che abbiano scatenato il panico a Salem. E’ indubbio che la situazione lì sia precipitata. Secondo la tua opinione di storica, qual è la causa ultima?
Ho alcune considerazioni da sollevare sull’argomento. La prima, è quella più divertente e meno corrispondente al vero. Uno storico ha affermato che le donne accusate di stregoneria a Salem avevano mangiato del pane andato a male. La muffa contenuta nel pane avrebbe creato un effetto allucinogeno, simile a quello provocato da Lsd. In realtà è una teoria bizzarra, ma quando la racconto, gli studenti sono entusiasti.
La seconda teoria è quella che si avvicina più alla mia idea: la cittadina di Salem è sul mare, ed è sempre stato un porto importante per gli Usa. Ebbe uno sviluppo talmente rapido che divenne necessario creare un secondo insediamento agricolo, Salem Village, da cui scaturì il panico che portò poi alla caccia alle streghe. Si dice che ci fossero delle forti differenze culturali tra la cittadina portuale e quella agricola, conflitti che riguardavano la gestione dei terreni e la religione. Altro elemento che ha influito è che in quel periodo nello stato del Maine, che faceva parte del Massachussets ed era considerato la sua frontiera orientale, ci furono degli scontri molto cruenti con i nativi americani. Scontri talmente violenti che portarono molti nativi a riparare dal Maine a Salem, considerato allora il confine del mondo civilizzato.
Uno altro storico ha scoperto che alcuni personaggi direttamente coinvolti nel panico di Salem avevano dei legami molto stretti con il Maine. Addirittura, la parola utilizzata per descrivere il diavolo, aveva la stessa radice di quella usata per descrivere i nativi americani. Bisogna inoltre ricordare che la popolazione di allora aveva una visione teocratica della vita: tutto era cristiano e quello che non lo era, apparteneva al diavolo, e quindi, anche i nativi. Probabilmente il processo di Salem è servito anche per sedare questi scontri così violenti tra abitanti della città e nativi americani.
Qual è il ruolo della religione nel tuo romanzo?
Per me era importante che Deliverance fosse cristiana perché tutti lo erano in quell’epoca. Al giorno d’oggi, la stregoneria è considerata una religione alternativa, ma allora no. Io ho cercato di essere quanto più vicina possibile alla natura storica di questo fenomeno ed ho cercato di collocarlo nel diciassettesimo secolo. Ho voluto anche descrivere il fenomeno secondo punti di vista diversi, per cui molti lettori cristiani e non si sono identificati, altri invece hanno trovato numerosi punti di differenza rispetto al loro credo spirituale.
Una curiosità: credi che la magia esista nel mondo reale?
E’ una domanda che molti lettori mi hanno rivolto, ma proprio perché tutti hanno una loro personale idea della storia, io non voglio assolutamente influenzarli. Però, quando mi capita di tenere delle presentazioni negli Usa, cerco di fornire una definizione un po’ più complessa di quella che per me è la magia. Lo farò anche adesso. Nelle occasioni importanti, ho sempre al dito quest’anello appartenuto a mia nonna, che per me è come un talismano magico, perché penso che possa aiutarmi nei momenti difficili.
– La interrompo e ridiamo: anche io indosso sempre l’anello di mia nonna per lo stesso motivo-.
E’ come andare a vedere la partita con i calzini fortunati pensando che la squadra per la quale teniamo vincerà. Nessuno la chiama magia, però un qualcosa di magico c’è in quel momento, qualcosa che derivia soprattutto da antiche credenze popolari che albergano nella nostra coscienza.
Stai lavorando ad un altro romanzo?
Certo, sarà un romanzo simile per tema alle Figlie del libro perduto, ambientato però in un’epoca diversa. Siamo nella Boston del 1915, la città si affaccia alla modernità, per strada circolano sia le auto sia le carrozze con i cavalli, c’è la prima metropolitana e al porto le navi con tre alberi maestri. Un periodo caratterizzato da un forte interesse per il paranormale, per la vita dopo la morte. Racconto le vicende tragiche di una famiglia di bramini bostoniani. Il titolo provvisorio è The screen glass, un termine antiquato che significa leggere il futuro in una sfera di cristallo. Se riesco a rispettare i tempi, dovrebbe uscire negli Usa nella primavera del 2011.