I racconti della Confraternita di Radeschi

51L2jiQNTZL._SX334_BO1,204,203,200_Waiting for Pinot
di 
Alessandro Colzi

“Credo di averla incontrata il 6 Settembre del 2006. Era un martedì, me lo ricordo perché il giorno prima il mio parrucchiere era chiuso, quindi doveva per forza essere un martedì.
E c’era questo bistrot molto semplice, in zona Lambrate a Milano, con l’insegna di legno scuro e la scritta un po’ sbiadita. Ogni volta che si apriva la porta si riversava per strada l’odore di burro, dolci e piadine. Uno di quei posti con gli scaffali pieni di boccali vuoti e di libri, alcune frasi scritte sui muri da pennarelli clandestini indelebili.
I tavoli e le sedie di legno, qualche divanetto nero sparso qui e là, con una chitarra poggiata in un angolo, e una tromba vicino il bancone; c’erano studenti universitari con il pc portatile e le cuffie, con pile e pile di appunti scritti più o meno male, con libri noiosi e matite consumate. Bei tempi quando anch’io ero uno di loro.
Erano ore ormai che giochicchiavo con il pulsante della penna, cercando un qualcosa che desse vita a un nuovo articolo. Ispirazione zero. Era come se potessi sentire il fiato sul collo di Calzolari. Riversai la mia frustrazione sulla terza media (e non mi riferisco ai miei titoli scolastici..).
Lei stava a due tavoli di distanza, con il computer aperto e una tazza di caffè macchiato caldo.
Portava degli occhiali da vista con la montatura leggera, simili ai miei, i capelli castani raccolti in maniera disordinata, e una camicetta a quadri aperta sopra una canottiera blu scuro.
Ogni tanto cancellava qualcosa su un foglio di carta stropicciato. Aveva gli occhi verdi, struccati. Era una di quelle donne che te le immagini in una piccola villa nel Kentucky, sulla veranda di legno bianco sporco, con davanti campi infiniti di verde e di giallo, mentre aspetta qualcuno con impazienza, qualcuno di importante, qualcuno che le è mancato per un bel po’. Almeno, questo è ciò che immaginavo io.
Oppure te le immagini da sole nelle grandi città del mondo, che alzano gli occhi al cielo cercando di capire dove finiscono i grattacieli di New York, o quante sfumature ci sono nelle nuvole del Kenya quando il sole tramonta, cercando il loro posto nel mondo senza fretta e senza pretese.
Posai la penna e mi alzai per andare a prendere la chitarra.
Era un po’ scordata, e io sapevo fare solo una canzone, e neanche benissimo. Era uno dei tanti progetti cominciati e mai portati a termine, come fare l’hacker professionista, come comprare un’auto invece di continuare a girare con una Vespa scassata….
Come le mie relazioni.
Attaccai “La mia storia fra le dita”, dopo qualche momento di impaccio; suonavo e cantavo con leggerezza per non disturbare nessuno, “Almeno resta qui per questa sera.. ma no che non ci provo, stai sicura..”

Lei, dopo un po’, finalmente alzò lo sguardo per individuare la provenienza di quel suono, e mi sorrise.. in quel momento l’ho saputo io quante sfumature avevano le nuvole del Kenya.. stavano tutte su quel viso sorridente. Poi tornò a concentrarsi sui suoi fogli.
La vedevo muovere le labbra, seguendo la canzone. Mi sono detto: “Questa, secondo me, i baci li sussurra”. Da lì non ricordo esattamente come abbiamo cominciato a parlare.
Forse le ho offerto un altro caffè dato che il suo era finito.
Forse le ho chiesto cosa stesse scrivendo. Forse mi ha detto che con la chitarra faccio schifo, che forse dovrei lasciar stare Gianluca Grignani, e tutta la musica in generale..
Forse è andata tipo:
– Ciao, io sono Enrico
– Ciao, Marta.
– Non sono un pazzo, eh.. Né un anziano che vuole raccontarti il dopoguerra. Non sono nemmeno l’ennesimo stronzo che vuole solo portarti a letto.
– Buono a sapersi. Di sicuro non sei neanche un cantante, però..
– Né un musicista, ovviamente.
– Chi sei, quindi?
– In realtà un giornalista ma ora “chiunque tu vuoi che io sia..”
– Guarda che questa frase non è per niente originale..
– Ah okay, allora posso cambiare risposta?
– Sentiamo.
– Niente, sono quello che stai aspettando sulla veranda di legno bianco nel Kentucky..
– Scusa?
– Niente lascia stare, non è che potresti sorridermi ancora?

Ma quest’ultima ipotesi me la sono sicuramente immaginata.
Forse certe cose accadono e basta. Ci siamo ritrovati al suo tavolino, con il suo computer chiuso e messo da una parte. Così come le mie paure, e, purtroppo, anche il mio nascente articolo di nera..

Studiava letteratura inglese, stava scrivendo una relazione su “Waiting for Godot”.
Ci siamo ritrovati seduti a quel tavolino di fronte alla vetrata come se ci fossimo sempre conosciuti, come se io aspettassi solo lei.. altro che Godot! Come se una canzone storpiata potesse diventare la chiave per un qualcosa. Come se quel qualcosa, in quel momento, volesse dirci che a volte bisogna fermarsi ad ascoltare, anziché lasciarci trascinare dalla nostra quotidianità.
Mentre in sottofondo la radio trasmetteva “Liberi liberi” di Vasco, la guardavo ridere di gusto per qualche battuta idiota, mentre fuori cominciava a piovere, e tutti correvano per ripararsi sotto qualche tettoia. Milano, quando piove, ha un suo fascino. Mentre io cominciavo a immaginare me stesso su quella veranda di legno bianco sporco nel Kentucky ad aspettare qualcuno di importante, così importante che neanche l’avevo mai conosciuto.

Dai caffè siamo passati a dei piccoli pasticcini accompagnati da due calici di Pinot, mentre commentavamo le frasi di poeti, artisti, e filosofi, sui muri di quel posto magico.
E’ stato il viaggio più bello della mia vita, nonostante fuori ci fosse il temporale, nonostante io non mi sia mai mosso da quella sedia, nonostante a New York io non ci sia mai stato. E nemmeno nel Kentucky. Io sono solo uno della “Bassa”..

Quel giorno scrissi forse il racconto più bello della mia vita. Altro che articoli per il Corriere..
Quel giorno, raccontai di lei.”

Potrebbero interessarti anche...