Questo pezzo mi è venuto in mente scartabellando tra i miei vecchi, vecchissimi, antidiluviani articoli e racconti della mia non beata gioventù (mai una lira in tasca!).
Da mettermi le mani nei capelli e sì che all’epoca mi sembravano belli e intelligenti (e ci avevo pure i capelli)! Sono pomposi, esuberanti, iperbolici, sono… sono troppi.
Troppi di tutto, di parole, aggettivi, avverbi, punti esclamativi e interrogativi e insomma uno scialacquio della nostra lingua da mettermi in galera per tutta la vita.
Se mi accosto ai libri di oggi vedo la mia perduta giovinezza letteraria in buona compagnia. Sembra che usare più parole possibili sia segno di potenza stilistica e di bravura. Parole, parole, parole come in una famosa canzone di Mina. Troppe parole. La bravura sta, semmai, nell’opposto. Nello scegliere, nel togliere, nell’assottigliare, nel decimare.
Prendiamo le frasettine brevi che vanno tanto di moda. Belline, via, se usate con parsimonia. Danno ritmo e spigliatezza al racconto, ma se sono tante allora diventano pressanti, martellanti. Come sentire un picchiettio continuo in certe parti ombrose ed è un effetto per niente gradevole. Se alle frasettine brevi si aggiungono quelle in corsivo, anch’esse in gran spolvero tra i nostri facitor di romanzi, allora il picchiettio incomincia a diventare noioso assai. Insopportabile.
Passiamo al linguaggio brillante e ai suoi pericoli. Non sono contro il linguaggio scelto e brillante. Figuriamoci.
Mi è sempre piaciuto saltimbeccare (mio conio) tra grappoli di metafore e robine similari che scoppiettano felici come bambini alla giostra. Ma se si esagera allora si cade nella battutina facile, nel fraseggiare stucchevole e nello stucchevole autocompiacimento. O come sono bello/a! o come sono bravo/a! Mamma mia che intelligenza, che grazia, che splendore, che fine dicitore, eccetera, eccetera…
Lo stesso sbaglio può essere commesso quando si tende ad iperbolizzare (mio conio) un determinato tipo di testo.
Iniziamo con il giallo classico, quello all’inglese tanto per intenderci, mio compagno di infinite sere buie e tempestose (mi è venuta così).
Lo schema lo conoscete: assassino, vittima, detective e brancata di indiziati. Quasi tutto ruota attorno agli alibi, agli orari, agli spostamenti e insomma avete capito. Un discorso di logica, di cervello, di cellule grigie che può dare la sua bella soddisfazione. Se si sta nei limiti, altrimenti giù nel vuoto cerebralismo, nell’appiattimento dei personaggi, in una noiosa, iperbolica disquisizione, in un bla bla bla che colpisce sempre lì, in quel punto non soleggiato citato prima.
Continuiamo con il giallo psicologico. Conoscete anche questo (non vi sfugge niente).
In breve all’autore non interessa tanto il fattore esterno della vicenda quanto quello interno dei personaggi. I sogni, i desideri, i dubbi, le paure, gli incubi. Del presente e, soprattutto, del passato che riemerge sempre terribile (li mortacci…). Bello entrare dentro i personaggi e conoscerli nelle loro più intime sfumature. Bello e interessante se dentro ai suddetti personaggi ci si sta per un po’. Se però la zolfa psicologica continua imperterrita per tutto il libro allora arriva il senso di soffocamento e la paura. Ehi, fatemi uscire, aria, un po’ d’aria per favore, ho detto fatemi uscire! E ci scappa pure qualche accidente.
Meglio il giallo d’azione (uso questo termine che può essere anche inappropriato) dove non si sta mai fermi e si gira da tutte le parti, dirà qualche ardito lettore. Una sbirciatina dentro ai personaggi e poi tutto fuori. Corse, agguati, inseguimenti, da un posto all’altro da una città all’altra. Che ci sia il sole, la neve, il vento o la burrasca importa assai. Basta mulinar gambe o pigiare sull’ acceleratore. Che goduria, ragazzi! Però, un momento, ogni tanto dico io, fermiamoci un attimo, un po’ di riposo, guardiamo un tramonto, giochiamo a carte, non ce fac…cio…pi…ù…a se…gui…r…vi.
E poi quei gialli, quei romanzi polizieschi, quei…non so come definirli, dove c’è tutto, anzi di tutto e di più: la storia del delitto e la sociologia, insieme alla psicologia e ad un pizzico di filosofia e magari pure un assaggio di teologia e insomma tutto in ia…Un trattato, un insieme di trattati che si spingono, si urtano, si affollano, si accalcano e pigiano, pigiano…e non c’è bisogno di specificare dove.
Aggiungo i polpettoni delle caterve di sangue e sperma e di morti ammazzati, sparati, spaccati, sbudellati, segati, randellati, sezionati che ti sbucano da tutte le parti perfino dal water nel momento più delicato e intimo della giornata.
Termino con i finali. Una battuta, via, non la faccio lunga. Il finale è importante per un giallo che si rispetti. Magari con il colpo a sorpresa per lasciare il lettore a bocca spalancata come uno stoccafisso. Ma un colpo a sorpresa oggi spesso non basta. Non solo si vuole lasciare il lettore a bocca spalancata ma si cerca in tutti modi di fargli prendere un coccolone con il colpo a sorpresa che prepara un altro colpo a sorpresa che a sua volta è l’anticamera di un successivo colpo a sorpresa che rimbomba proprio lì, nello stesso punto.
E allora un grido spontaneo esce fuori dal profondo del cuore facendo esplodere l’oggetto nascosto massacrato e distrutto “Due palle!!!”.
Eh sì, ragazzi, il troppo stroppia. E i proverbi popolari, si sa, contengono una loro antica saggezza. Dunque un consiglio ai giovani autori. Non stroppiate!
E nemmeno mandatemi a quel paese che già lo conosco a memoria.