Roma kaputt



Marco Bettini,
Roma kaputt
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Non ha la bacchetta magica, non pretende che altri la abbiano, ma è sicuro che per riuscire a cancellare sulla nera lavagna metropolitana tutti mali che affliggono Roma, l’unica strada dopo questi troppi anni di ignavia, l’unica soluzione sarebbe ricorrere a una specie di sortilegio.
Infatti ecco quanto Marco Bettini, romagnolo doc ma trapiantato tra le mura capitoline da mo’ e quindi ormai a buon diritto “romano verace”, scrive di quella che considera la sua città. :«Se c’è un posto dove il caos primordiale ha buone probabilità di evolvere in delirio cosmico, questo è Roma. Certo, la capitale è una città meravigliosa. Una torta a strati dove opere d’arte ineguagliabili, chiese erette nel corso dei secoli con stili diversi, architettura barocca, reperti storici millenari, boschi e giardini lussureggianti si alternano ad angoli di miseria atroce, edifici diroccati, fortini dello squallore, interi isolati trasformati in zone franche dello spaccio. Roma mescola il sacro e il profano, la bellezza e la sporcizia, l’arte con il selvaggio West. Restituisce ai visitatori ogni goccia del suo fascino, ma a chi la guarda a fondo non nasconde nemmeno le sue miserie. Sicuramente, è la capitale del mondo occidentale che funziona peggio di tutte.»
In Roma Kaputt Marco Bettini ci racconta del caos romano con duplice ottica: quella del dirigente che, lavorando per il comune, si è trovato ogni giorno a confronto col “sistema”, e quella del giornalista che prova a ricostruire ciò e quanto hanno condizionato la vita della capitale negli ultimi anni.
I ladri e i corrotti, a suo vedere, va a finire che diventano l’ultimo dei problemi. Il più spiacevole certo e il più visibile. Cosa che la recente condanna in tribunale di quasi tutti gli imputati nel processo Mafia Capitale ha ampiamente dimostrato. Purtroppo però il malaffare è solo l’effetto, e neanche il più pericoloso, di un disastro politico e amministrativo locale che spesso e volentieri si tramanda puntualmente rispettando la legalità.
Però mai dare addosso al sindaco o al partito di turno. Soprattutto dargli addosso per i motivi sbagliati. Il peggior errore di Marino è stato il velleitarismo di credersi in grado di raddrizzare e magari far funzionare una macchina che di proposito o no, “impantana” ogni decisione. Perché è il sistema che fa del governo di Roma una vera “mission impossibile”. Un sistema che non è solo quello Carminati ma un intrico di concause tranquillamente alla luce del sole e che portano sempre agli stessi risultati: debito, inefficacia, sconfitta della politica. Roma è il fertile humus di una “cultura fungiforme” dove il tirare a campare (Andreotti insegnò) diventa un placido e tormentoso «non è di mia competenza». E chi tenta di sbrogliare quel ginepraio di regolamenti, magari proponendo di fare i biglietti di viaggio via web, finisce con essere considerato un rompiscatole. Et voila lo stallo organizzativo e l’aumentare dei costi. E in una piccolezza come questa si riflettono le grandi, quali trasporti, edilizia o raccolta dei rifiuti=l’eterna monnezza che assedia la città.
Sul risanamento c’è stata l’occasione sprecata da Alemanno, per esempio, che si trovò col debito pregresso commissariato e non ne approfittò per cambiare registro.
La politica c’entra, è vero, ma tra il ricatto del consenso e una elefantiaca macchina è posta sempre più spesso davanti a scelte obbligate. Con l’elezione dei nuovi sindaci in primavera il tempo stringe. Per esempio, servono mesi per far partire nuove gare per le mense scolastiche e quindi è inevitabile la proroga dei vecchi concessionari. Così, spesso non per volontà politica, ma per quasi obbligatoria inerzia burocratica si creano i monopoli. E l’assurdo paradosso che per fare le cose in regole bisogna in pratica, lasciare tutto com’era, per non cambiare, magari in peggio, e ritrovarsi per forza dentro ai mondi di mezzo delle Mafie Capitali.
Altro esempio i Punti Verdi di Rutelli erano un’ ottima idea finita “a nuovi debiti”. Le opere per rendere vivibili zone di nuova costruzione furono affidate in concessione di privati, finanziati dalle banche. Con una bella fidejussione comunale a garanzia dei mutui erogati. E naturalmente vista la sinecura della garanzia, quanti concessionari hanno pagato? L’Edilizia Capitale è una fabbrica di slogan per l’antipolitica, per chi grida «onestà, onestà», ma in realtà ci vorrebbe qualcosa in grado di riorganizzare davvero la macchina.
Illogicità del sistema, proliferazione degli interventi delle magistrature e codicilli, elevati ad alibi da categorie, imprese o dirigenti, producono corruzione e affarismo. Così il sindaco si trova incastrato tra quello che vorrebbe fare e quello che può. E allora? Aspettare impotenti in attesa dell’inevitabile crollo di sistema?
Ed ecco il quasi sortilegio proposto da Bettini: primo passo: delegificare, e cioè trasferire più che si può all’amministrazione pubblica il potere di disciplinare una materia regolata in precedenza da leggi statali, smontando l’attuale labirinto che conduce all’irresponsabilità. Poi smontare la stessa Roma, “riducendone” il territorio. Copiare il modello Parigi e affidare il centro storico, compreso entro le Mura Aureliane, a un delegato che potrebbe rispondere direttamente alla presidenza della Repubblica. Vorrebbe dire dedicare a quest’area finanziamenti ad hoc per il ruolo che gli compete. Infatti il 90 per cento delle manifestazioni nazionali a Roma avvengono all’interno delle mura aureliane. E comportano costi che non devono annegare nel calderone del bilancio capitolino. Una soluzione così avrebbe per conseguenza anche di semplificare le competenze sul territorio di Roma. Viste le dimensioni e il ruolo della città, non si può far gravare sul suo perimetro anche la Regione. Troppi conflitti di giurisdizione, troppi interessi che si sovrappongono e troppi finanziamenti provenienti da diverse istituzioni, con diversi interessi politici. Tuttavia niente di tutto questo potrebbe funzionare davvero senza una vera linea di comando interna all’amministrazione. Basterebbe uscire dai limiti della legge Bassanini e consentire ai sindaci di nominare , in spoil system, in una trentina di posti chiave (congrui date dimensioni della città e la sua struttura amministrativa) dirigenti di fiducia, strettamente legati al mandato. Dirigenti con piena e totale responsabilità dei loro settori, nominati “a termine”, ma che possano guidare la struttura comunale con pienezza di poteri e di doveri. Il balletto delle nomine dopo l’insediamento della giunta Raggi e lo scontro sulle modalità con cui sono state fatte è stato un brutto spettacolo di cui tutti potevamo tranquillamente privarci.
Ma certo sono cose che vogliono tempo, precise scelte politiche e che comunque presentano costi sociali (ed elettorali). E in questi tempi di populismo e giornaliere, convulse spinte mediatiche, c’è un governo, un partito o un sindaco che siano capaci di farlo, e soprattutto che possano permetterselo?

Patrizia Debicke

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