Simpatie e antipatie giallistiche (seconda parte)

La prima puntata di questo interessante articolo si può leggere qui.

Passiamo a Sherlock Holmes. Il re degli investigatori nasce dalla penna di Arthur Conan Doyle. Era un medico che scriveva per passatempo. La sua prima avventura “Uno studio in rosso” fu un mezzo fiasco. Poi, come succede talvolta nella vita, la Fortuna ci mette lo zampino. Un editore americano si innamora del personaggio e chiede al dottore un romanzo per la sua rivista. “Il segno dei quattro” fu subito un grande successo. Che gli procurò una certa paranoia. Nel senso che questo pover’uomo non ne poteva più di trovarsi tra i piedi (leggi cervello) il nostro Holmes. Come personaggio letterario, s’intende. Cercò perfino di crearne un altro, un certo Etienne Gerard, un brigadiere un po’ fanfarone dell’armata napoleonica, ma non ci fu verso. Tentò di farlo morire nelle cascate di Reichenbach ma fu costretto a “resuscitarlo” tanto i lettori erano affezionati al dinoccolato investigatore. Il quale dinoccolato investigatore rivivrà nelle mani di una marea di fan che verranno dopo e che continuano ancora oggi a stuzzicarlo.

Quando lo scoprii per la prima volta mi venne un colpo. Non potevo immaginare che un paladino della giustizia si comportasse come un depravato cocainomane. Ma in seguito ne ho viste di così cotte e di crude per cui questa deplorevole abitudine è diventato quasi un fiore all’occhiello. Il cognome Holmes fu suggerito al suo autore dal poeta americano Oliver Wendell Holmes del quale aveva grande stima. Il primo nome che gli venne in testa fu Sherrinford, cambiato in Sherlock un po’ per caso, perché il primo gli sembrava troppo lungo. Sherlock Holmes lo conosciamo tutti: alto, slanciato, occhi acuti, naso un po’ aquilino. Inoltre fuma la pipa, suona il violino, porta sempre con sé una lente di ingrandimento, indossa un soprabito scozzese con relativa mantellina e un cappello da cacciatore. E’ metodico e preciso nelle indagini, acuto osservatore, mirabile nelle deduzioni come e forse più del Dupin di Poe. E questo fatto all’inizio da una parte mi ammaliava e dall’altra mi faceva incazzicchiare perché io ero e sono talmente distratto da non accorgermi neppure se chi mi saluta è un essere umano o una scimmia (ho esagerato apposta. Se la mano è troppo pelosa me ne accorgo).

Altro personaggio indimenticabile Maigret. Che mi fa venire in mente la televisione. Avevo visto la bella interpretazione che il nostro Gino Cervi aveva fatto del commissario transalpino e così cominciai a fare incetta di gialli del suo autore George Simenon. Mi piacque subito quella sua aria solida, quel suo fare da buon padre di famiglia, quella sua capacità di “annusare” l’atmosfera dei luoghi e delle persone inerenti al delitto. Quel suo modo di essere semplice che lo riconduce alla realtà di tutti i giorni. Un personaggio vero che è entrato nel cuore di tutti. Basta pensare ad una pipa e ad un bicchiere di birra. Comunque il nostro Simenon non avrebbe potuto creare il nostro Maigret se non lo avesse conosciuto di persona. Non ci credete? Dico che nella realtà di quei tempi in cui Simenon scriveva le storie di Maigret c’era già nella polizia francese il commissario Marcel Guillame che per la sua bravura era stato soprannominato lo “Sherlock Holmes” francese. Simenon si mette sulle sue tracce, riesce a conoscerlo e fra i due nasce una lunga amicizia.

Questo Guillame era alto, forte, dai lunghi baffi arricciati, con il caratteristico cappello a bombetta sempre sulla testa, testardo e profondamente onesto nei confronti degli indagati. E’ quello, tanto per capirci, che riesce a smascherare Henri Landru che ammazzava donne come fossero moscerini e poi le bruciava nel caminetto della sua villa risparmiando un bel po’ di legna. Insomma lo Sherlock Holmes francese insegna a Simenon molti trucchi del mestiere, soprattutto dal punto di vista psicologico, che poi lui riversa sul commissario Maigret. E poi c’è il ritmo. Ma sì, il ritmo, quel ritmo lento e sinuoso, quasi avvolgente che lo scrittore belga riesce a creare in molti dei suoi romanzi polizieschi. Una vera oasi di pace rispetto a quelli massacranti di certi gialli moderni.

Tra il 1969 e il 1971 comparvero, sempre alla televisione, una serie di sceneggiati su Nero Wolfe interpretati magistralmente da Tino Buazzelli. Fu un trionfo. Me lo ricordo bene perché erano gli anni della contestazione studentesca per cui di giorno mi ritrovavo a blaterare con i “compagni” sciocchi slogan del tipo “Tutto e subito” e la sera, invece di studiare come combattere l’Autorità con la A maiuscola, me ne stavo ignominiosamente rincantucciato sulla poltrona a godermi le esilaranti avventure nate dalla penna di Rex Stout. Una delle tante contraddizioni della beata (si fa per dire) gioventù (almeno della mia).
Già l’autore mi restava simpatico. Nella vita, prima di giungere al successo, si era dato da fare. Aveva fatto mille mestieri per tirare avanti: da contabile a venditore di souvenir indiani, da guida turistica a stalliere, da venditore di libri a direttore (perfino!) di albergo. Lo avevo anche visto in una fotografia (dove?) e mi era parso alto, dall’aspetto agile e con la barba lunga. Tutto l’opposto della sua creatura. In quegli sceneggiati che davvero fecero epoca c’erano altri attori di gran pregio: Paolo Ferrari ad impersonare Archie Goodwin,

Pupo de Luca che rappresentava il cuoco e maggiordomo belga Fritz Brenner e Renzo Palmer nelle vesti dell’ispettore Fergus Cramer. Un bel quartetto! Stout era stato astuto. Perfidamente astuto nella costruzione dei suoi personaggi principali. Nero Wolfe mostruosamente grasso e pigro, Archie Goodwin agile e scattante. L’uno fermo, inchiodato alla poltrona, l’altro in eterno movimento. Due piccioni con una fava: il giallo classico all’inglese coniugato con “l’hard boiled” americana. Il tutto servito su un piatto d’argento dove erano bene amalgamate la passione per le orchidee, per la buona cucina, per le raffinate conversazioni e la diffidenza verso il gentil sesso. Un vero e proprio capolavoro di alchimia “giallistica”.

La buona cucina. E la buona tavola. Un elemento di successo di molti romanzi polizieschi a incominciare da Nero Wolfe e mi ricordo che proprio nel periodo in cui andava in onda lo sceneggiato uscirono alcuni libri  sulle sue (e quelle di Fritz) famose ricette che fecero il giro anche di noti ristoranti. Rex Stout dimostrò, tra l’altro, di avere una sorprendente conoscenza di alcune abitudini alimentari del nostro paese. Simpatia che si aggiunge a simpatia…

Lord Wimsey mi è ritornato in mente qualche tempo fa dopo una delle mie abituali scorrerie nelle librerie di Siena. Colpito dalla copertina accattivante (maledette copertine!) di “Lord Wimsey e il mistero del Bellona Club” di Dorothy L. Sayers, pubblicato dalla Donzelli editore nel 2006, non ho potuto fare a meno di portarmela a casa. Rinfrescando così la memoria su questo geniale personaggio.

La Sayers, che è stata donna di profondi studi e di grande cultura- ha perfino tradotto in inglese quasi tutta (o tutta?) la “Divina commedia”- porta nel romanzo poliziesco quella abilità letteraria che le era quasi connaturata. Nel 1923 scrive “Peter Wimsey e il cadavere sconosciuto” capostipite di una lunga, lunghissima serie di romanzi e racconti polizieschi che hanno per protagonista il nostro giovane bellimbusto. Notizie più particolari sulla sua vita le abbiamo dallo zio Paul Austin Delagardie, richiesto dalla stessa Sayers “di riempire alcune lacune e correggere alcuni errori trascurabili nel suo resoconto sulla carriera di mio nipote Peter” come trascrivo dal libro citato.  Non la faccio lunga. Un aristocratico che vanta illustri discendenti nobiliari, raffinatissimo, snob come quasi tutti i nobili e i raffinati, colleziona incunaboli e libri rari (dei quali la Sayers se ne intende, eccome), esperto cavallerizzo, adora la musica, la storia, ma soprattutto la criminologia. Porta un monocolo, in realtà una lente molto potente, un classico bastone da passeggio un po’ particolare, perché dentro contiene una lama di spada e il pomo una bussola. Tiene sempre con sé una scatola portafiammiferi che altro non è se non una pila. Il suo stemma di famiglia, poi, è tutto un programma. Scudo in campo nero con tre topi che corrono color argento sormontato da un gatto rampante con il motto “A mio capriccio”. Strambo e originale.

Philo Vance, nato dalla penna di S.S. Van Dine, pseudonimo di Willard Huntington Wright ha diversi punti in comune. Anche lui è uno snob con la puzza sotto il naso (manca, se non erro, di un titolo nobiliare) e discretamente cinico, ricercato nel vestire, porta anch’egli un monocolo (vero, però),  appassionato collezionista di opere d’arte, di stampe cinesi, di tesori egizi. Non ricordo che ami cavalcare ma sono sicuro che si diletta di scherma ed è un eccezionale giocatore di poker e, soprattutto, di scacchi, il che in futuro avrebbe segnato molti punti a suo favore. Ha una cultura vasta ed enciclopedica. Ricordo, invece, una magnifica interpretazione di Giorgio Albertazzi sul piccolo schermo nei primi anni settanta con il monocolo e il bocchino lungo per le sigarette (mi pare che vestisse tutto di bianco). All’inizio i due personaggi mi davano un discreto fastidio, lo confesso. Abituato come ero alla vita schietta e un po’ rozza (diciamo la verità) di paese questi due fringuelli aristocratici mi facevano venire il prurito alle mani.

Se li avessi avuti a tiro li avrei presi senz’altro a sganassoni e calci in culo. Poi il Tempo cambia tutto ed ora me li ritrovo davanti come due miti incrollabili (ma un pillotto sul naso glielo darei volentieri lo stesso ). Accidenti! 

fabio lotti

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