Intervista a Umberto Pasti

“Sì, ne sono certo, fare il giardino è amare”, con questa sicurezza esordisce  Umberto Pasti da me intervistato in occasione dell’uscita del suo Giardini e no. Manuale di sopravvivenza botanica (Bompiani). Attraverso le varie tipologie di giardini da quello collezionista a quello del benzinaio, Pasti descrive con amara ironia la società odierna globalizzata.

Giardini e no è un libro che riesce a fare denuncia?

Descrivo la società globalizzata e succube delle speculazioni immobiliari con ironia, ma soprattutto con disperazione. Mi dispera quello che pochi uomini ricchi e potenti stanno facendo al mondo. Tutti noi abbiamo diritto alle cicale, al silenzio, al profumo dei boschi. Se andiamo avanti così i nostri figli non sapranno neanche cosa queste parole significhino.

Pasti  fa inoltrare il lettore nelle atmosfere dei diversi giardini che descrive, fa quasi percepire quegli odori sprigionati dalle piante e dai fiori. “Il giardino è vivo, un corpo che si trasforma tutti i giorni sotto le tue dita. I godimenti e le pene sono quelli dell’amore” scrive Pasti rivolgendosi agli aspiranti giardinieri ed esortandoli ad ascoltare, guardare e udire la natura. Diventare giardiniere vuol dire tentare, sbagliare, riprovare o soprattutto “sentire” le piante

L’arte del giardino sottende un percorso di libertà interiore?

Sì. Sentire le piante e sentire noi stessi in relazione al loro mondo. Che è fastoso ma anche terribile, innocente, quindi crudele. L’arte del giardino è approfondimento di conoscenza. Conoscenza e libertà, per me, coincidono.

Essere giardiniere è come essere un amante attento e premuroso perché il giardino è vivo e si trasforma ogni giorno sotto i nostri occhi e le nostre mani. È il luogo dell’anima che riflette le aspirazioni, le competenze ma anche le virtù o le follie di chi se ne occupa e così il libro che contiene anche i disegni di Pierre Le-Tan diventa racconto e denuncia della storia dell’uomo e delle sue conquiste attraverso la botanica.

Se il giardino rappresenta uno specchio dell’anima, le nostre radici, che senso ha affidarsi a un garden designer o a un paesaggista?

Affidarsi a un buon paesaggista o a un buon giardiniere, avendone i mezzi, può aiutarci a scoprire il giardiniere che è in noi. Ma ce ne sono in giro pochi. Si può tentare da soli, e trasformare i propri errori in coraggio. Bisognerebbe guardare di più, toccare di più, annusare di più, e pensare meno a cosa è « bello » e a cosa « sta bene » nella nostra aiuoletta o sul nostro balcone.

Il giardino diventa parte di noi del nostro essere che esprime la creatività ma anche la sensibilità ma diviene anche status symbol, ostentazione e insieme ai giardini che hanno lo scopo, deciso a tavolino, di stupire a tutti i costi pur di seguire gli statements o i must del momento, esistono ancora e fortunatamente i giardini semplici, nascosti in luoghi remoti in cui risiede la bellezza e l’armonia naturale.

Dalla “perfezione” del giardino del collezionista, un luogo privato e accessibile a pochi, alla Baitìa col suo giardino incantato circondato dal muro di oggetti evocativi. Due giardini che rispecchiano due stili di vita opposti per situazione economica e sociale.

E’ alla Baitìa che dovremmo tornare?

Non dovremmo andare né verso il giardino « ricco » né verso il giardino « povero » (anche se esteticamente preferisco spesso il secondo) . Dovremmo ascoltare i luoghi e noi stessi . Per me il giardino è giardino del cuore.

Il giardino è anche rifugio, un luogo della salvezza quando si subisce un trauma. È un luogo terapeutico?

Il giardino è un luogo terapeutico perché, se veramente un giardino é vissuto come tale, siamo costantemente in relazione con la vita e con la morte . Essere « dentro » la vita e tenere più presente la morte è l’unica cura che conosco per la nostra malattia predominante, che è di dimenticarci di essere delle creature vive destinate a morire.

cristina marra

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