L’antefatto, che non viene narrato nel libro, può essere considerato un classico: un serial killer che uccide delle ragazzine e getta i loro corpi in un terreno abbandonato. Da qui il titolo: rimasto a suo tempo incolto, quel terreno, era stato invaso da fiori infestanti, delle strane margherite gialle e con dei punti neri all’interno, che vengono chiamate dalla popolazione locale, con un po’ di timore, le Susan dagli occhi neri.
Solo una di quelle ragazze, Tessa Cartwright, viene trovata ancora in vita. Siamo nell’anno 1995 e per lei ci vorrà un lungo percorso terapeutico per riprendersi fisicamente ed emotivamente, ma essendo lei l’unica testimone, non le viene risparmiato il coinvolgimento nella vicenda giudiziaria, che un po’ tutti cercano di risolvere il più velocemente possibile.
Tessa si ritrova quindi sotto i riflettori, esposta alla crudezza della macchina burocratica. Lo psicologo che la segue cerca in qualche modo di tutelarla, ma è soprattutto Lydia, la sua amica di sempre, a darle la forza di andare avanti. Erano amiche fin dalla seconda elementare e Tessa l’aveva sentita sempre vicina, poiché la trattava con la durezza di un affetto profondo – senza pietà – e riusciva a divertirla anche il quel frangente così paradossale, compressa nel doppio binario terapeutico e amministrativo …
Ma ecco che l’amica di sempre sparisce dopo aver testimoniato al processo. Una litigata sembra dividerle per sempre.
Nell’anno 2015 Tessa ha una professione, una vita propria, e sta crescendo da sola una figlia adolescente di nome Charlie, dal temperamento spensierato e impetuoso. Tessa vuole tenere la figlia fuori da quella brutta vicenda del suo passato e così facendo, sembra che anche Tessa possa lasciarsela alle spalle.
Ma un’altra volta la vicenda giudiziaria bussa alla porta e ritorna il clamore mediatico, con la sua follia, a rendere confusa la nostra protagonista.
Si avvicina il momento dell’esecuzione dell’imputato, ed alcuni attivisti contro la pena di morte contattano Tessa, chiedendole nuovamente di ricordare. Le analisi di laboratorio evidenziano la superficialità delle ricostruzioni fatte 20 anni prima, coi mezzi di allora. Però il tempo che rimane a disposizione è davvero poco e i giudici – si sa – mettono malvolentieri mano alle proprie decisioni, anche se è in gioco una vita umana.
Delineare la complessità di queste dinamiche non è poca cosa, per di più dalla posizione marginale di vittima che non ricorda, tagliata fuori dal lavoro ufficiale di scavo. Le due narrazioni, degli eventi dell’anno 1995 e 2015, procedono di pari passo, a capitoli alterni, con una scansione quasi perfetta, che il lettore assimila velocemente, ed è sempre la voce di Tessa a guidarci.
Ma questa luce gettata sugli eventi, a queste condizioni, rende merito alla ricchezza di scrittura di Julia Heaberlin e rende la forza dello sguardo avido della protagonista, che sembra voler reagire al vuoto che è rimasto nella sua memoria, nonostante la sua vita e il suo fisico si siano rimessi dignitosamente in carreggiata. L’autrice dimostra una buona dose di onestà nel mischiare indizi, supposizioni, ricordi ed errori, come realisticamente succede. Arrivare alla verità non sembra una caccia al tesoro: si avverte piuttosto una presenza che incombe e minaccia, e insieme si sente la nostalgia forte per un’amica perduta, la voglia di sentire ancora dalla sua voce, la spiegazione di quello che accade. La sorte del colpevole rimane al margine di questi canali dell’emozione.
Un romanzo potenzialmente forte e bello, secondo me un po’ appesantito dall’attenzione per la ricostruzione scientifica, che sembra più un compito eseguito con diligenza, un orpello rispetto al tema forte di un’amicizia che non si dimentica, del potere di una promessa, della voce del passato che infesta ed abita il presente.
Gli occhi neri di Susan
Serena Imperiale