L’uomo che viaggiava con la peste



Vincent Devannes
L’uomo che viaggiava con la peste
Neo
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Lo chiamano Albert Dallien, ma non è il suo vero nome. Nell’Europa che da appena un lustro ha chiuso con le operazioni belliche della Seconda guerra mondiale (che non è come dire di aver chiuso con la guerra stessa) non c’è più posto per lui. Meglio mettere più chilometri possibile tra sé e ciò che si ha commesso. Se poi a formare la distanza c’è addirittura un oceano, tombola. L’Argentina è la tombola. L’uomo inizia la sua nuova esistenza a Buenos Aires ed è immediatamente risucchiato in una città eccessiva in tutto. Nella violenza, nella criminalità generica, nel sesso, nei diversi traffici umani. Scopre che la capitale è la nuova culla di gerarchi e mezze calze di nome nel Terzo Reich, che in quel lembo di Sud America pensano a tutto eccetto che a svernare come nonni sconfitti dalla Storia. La Buenos Aires del 1950 impone la scelta di un ruolo e la sua recita finché c’è muro umano da penetrare. E nella massa umana, facile incontrare il dottor Mengele («Un giorno sarò più famoso di Hitler»), l’uomo che ad Auschwitz era considerato Dio, oppure Rod Stewart, da irridere in quanto debosciato fighetto, da ammirare per il numero di donne in grado di collezionare a letto. Parigino, classe 1967, Vincent Devannes in Francia è giunto al terzo romanzo e questo L’Uomo Che Viaggiava Con La Peste è stato il suo esordio. Convince l’atmosfera collettiva ricreata dentro cui far planare la vicenda umana del protagonista. Il mondo e l’uomo conosciuto come Albert Dallien: due entità in cerca di identità, pirandellianamente perdute, forse già morte, ma ancora in grado di muoversi repentinamente e come il corpo di un essere animale a cui è stata mozzata la testa. Emerge chi per primo si ambienta nella nuova menzogna personale e sociale. Scrittura tambureggiante, ma sempre accuratamente distaccata rispetto all’oggetto raccontato. Questo tipo di nero, in fin dei conti, meglio tenerlo sempre a qualche metro da sé.

Corrado Ori Tanzi

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