Guido Salvini con Andrea Sceresini
La maledizione di Piazza Fontana
Chiarelettere
L’indagine interrotta. I testimoni dimenticati. La guerra tra i magistrati
12 dicembre 1969, un venerdì. Milano si prepara a festeggiare il Natale senza lo sfarzo un po’ pacchiano delle luminarie che oggi vestono di luci la città. Fa freddo, in piazza Duomo i venditori di caldarroste fanno affari d’oro. Alle quattro del pomeriggio La Banca Nazionale dell’Agricoltura a poche centinaia di metri è ancora molto affollata. Per tradizione, al venerdì pomeriggio chiude gli sportelli tardi perché quella è l’ora delle contrattazioni rurali, dei patti siglati con una stretta di mano, dei saluti scambiati ad alta voce.
Quel venerdì il grande salone al pianterreno è affollato. Agricoltori e allevatori si accalcavano attorno al massiccio tavolo centrale ricoperto da una pesante lastra di cristallo. Qualcuno è chino a compilare i moduli. Borse di cuoio consunte posate a terra per avere libere le mani. Chi noterebbe quella nera, rigonfia, sistemata proprio sotto il tavolo?
Sono le sedici e trentasette minuti quando un boato frantuma l’aria facendo esplodere i vetri degli edifici circostanti. Una colonna pesante di fumo nero si solleva sopra i tetti degli edifici, visibile da ogni punto della città. Al fragore assordante dello scoppio seguono il silenzio e l’immobilità che congelano l’aria per diversi secondi. Poi è tutto un rincorrersi di sirene: quelle delle autoambulanze e quelle delle volanti accorse dalla vicina questura.
“E’ esplosa una caldaia!” E’ questa la notizia battuta dalle prime agenzie. Una caldaia!
Lo spettacolo che si presenta ai soccorritori è atroce. Il salone al pianterreno della banca è pieno di detriti. Il grande tavolo di legno massiccio si è disintegrato e il vetro che lo ricopriva ha lanciato schegge come proiettili che si sono conficcate dappertutto: nelle pareti e nei corpi delle vittime. Al centro, dove stava il tavolo, un cratere. E poi morti. Morti dappertutto. Alcuni corpi sono smembrati. E sangue: il sangue delle diciassette vittime e degli ottantotto feriti. L’aria è pervasa dall’odore di mandorle amare che toglie il respiro:sono esplosi sette-otto chili di gelignite, un esplosivo militare di potenza superiore al tritolo.
Sono passai esattamente cinquant’anni da quel 12 dicembre. Mezzo secolo, durante il quale i depistaggi si sono contrapposti tenacemente a ogni tentativo dei magistrati di fare luce sulla strage che per tutti sarà la linea di confine fra la pax democristiana e la stagione degli attentati, quella che poi sarà definita “strategia della tensione”.
Un magistrato, Guido Salvini, giudice istruttore del tribunale di Milano, che di Piazza Fontana si occupato negli anni ’90 con un’inchiesta sull’eversione di destra i cui risultati sono confluiti nell’ultimo processo agli stragisti, e un giornalista investigativo, Andrea Sceresini, autore di numerosi libri d’inchiesta, hanno messo in comune le rispettive conoscenze su quella che è stata “madre di tutte le stragi”, che ha cambiato per sempre le prospettive democratiche nel nostro paese, lasciando intravedere, soprattutto fra le maglie dei depistaggi, la trama eversiva fondata sulle false flag, le false bandiere che a partire da quel lontano 12 dicembre, graveranno per i decenni a venire come una coltre di piombo sulla vita democratica italiana.
In questo libro ci sono le risposte a molte domande rimaste sospese nell’aria, confinate nel limbo di una giustizia minata alla base, fatta di infiniti rinvii, di sentenze contraddittorie, di condanne e assoluzioni e di nuovo condanne e poi ancora assoluzioni. Un macabro minuetto finito nel nulla, con i responsabili della strage lasciati liberi di progettarne e metterne segno altre e un uomo innocente, Pino Pinelli, apparso da subito il capro espiatorio ideale, fatto precipitare dalla stanza al quarto piano della questura ed entrato nel numero delle vittime: la diciottesima.
Ecco, fu proprio l’assassinio di Pinelli, mai spiegato nella sua dinamica ma chiaro nel movente, a mostrare ai pochi disposti a vederle, le maglie del complotto che, oggi lo sappiamo, era stato ordito allo scopo di destabilizzare il Paese con la complicità di importanti pezzi delle istituzioni e di oscuri personaggi che sapevano
Proprio su quei depistaggi e su chi sapeva, su chi stava al di sopra degli esecutori e ne guidava le mosse badando ad assicurare loro l’impunità attraverso i depistaggi e operazioni di esfiltrazione, ha indagato il giudice Guido Salvini, allacciando pazientemente ogni filo ben sapendo che alla verità vera, alle giuste condanne non sarebbe mai potuto arrivare e il motivo gli è stato chiaro abbastanza in fretta, quando cioè ha intuito quello che molti anni dopo avrebbe rivelato al giornalista Andrea Sceresini, in un’intervista mai pubblicata prima di essere inserita integralmente in questo libro, il generale Gianadelio Maletti, ex numero due del Sid, il grande vecchio dei depistaggi, uno dei pochi uomini a conoscenza del piano ordito oltreoceano da un servizio di intelligence ancora più ermetico della Cia, il Cic.
“ Lo Stato sapeva”, ha rivelato il generale che, a quasi cento anni ben portati, continua a godersi la sua dorata latitanza in Sudafrica.“Gli attentati non dovevano fermarsi a piazza Fontana, erano in programma altri attacchi: contro le sedi politiche, le strutture industriali e le vie di trasporto … I dettagli del piano erano certamente noti ai massimi vertici politici in Italia come negli Stati uniti … Sapevano tutto Giulio Andreotti, sapeva tutto l presidente della repubblica Giuseppe Saragat …”. Più chiaro di così!
In pratica quella bomba, a cui seguirono attentati sui treni, esplosioni dovunque, in una ininterrotta catena di sangue che durò decenni, fu un atto di guerra dello Stato contro lo Stato democratico. Come meravigliarsi se non fu mai possibile, come dice il giudice Guido Salvini, arrivare alla verità e fare davvero giustizia?
Questo libro non è uno dei tanti, pure molto pregevoli, dedicati alla strage. E’ un’opera unica perché contiene il frutto di dieci anni di indagini che hanno portato alla luce molti pezzi del mosaico rimasti sconosciuti. Un frammento della nostra memoria che non deve andare perduto.