I miei romanzi storici legati a interrogativi esistenziali – Intervista a Gabriele Dadati

downloadGabriele Dadati, 38 anni, al secondo romanzo con Baldini+Castoldi, con il coinvolgente e sorprendente “Nella pietra e nel sangue”, dopo il rivelatore “L’ultima notte di Canova”, e dopo un inizio scoppiettante a 17 anni come finalista del Premio Chiara giovani, un traguardo raggiunto per tre anni consecutivi. Poi un percorso quasi obbligato nell’editoria italiana: pubblicazioni e progetti con editori indipendenti, per giungere, forse un po’ in ritardo, visti gli inizi e quindi le attese, sulla scena della grande editoria.
“In realtà ci sono arrivato a 34 anni, anche perché non lo desideravo prima. Ho avuto rapporti e incontri con editori indipendenti che stimavo e ho fatto i libri con loro perché mi sembrava che ci fossero progetti culturali che valeva la pena incontrare e accompagnare. Quando ho scritto “L’ultima notte di Canova”, che ha richiesto tanti anni di studio e di approfondimento, mi è sembrato che fosse arrivato il momento di una dimensione diversa. Baldini+Castoldi è stato ed è l’editore che mi corrisponde molto, umanamente e progettualmente”.

Questa voglia di guardare al passato, maturata negli ultimi lavori, prima Canova e poi Pier delle Vigne, è una novità nel tuo percorso di scrittore, a quali necessità risponde?
“Il merito è di Canova. Ho scritto la mia tesi di laurea, un po’ di tempo fa nel 2006, su un testo ottocentesco che parla di Canova, “Panegirico ad Antonio Canova” di Pietro Giordani, su cui poi ho fatto una pubblicazione accademica, ho partecipato a convegni: è stata una parte importante della mia vita. A distanza di anni mi sono reso conto che non ero riuscito a esaurire l’argomento dal punto di vista accademico, ma c’era qualcosa che persisteva nella mia sensibilità, che tornava a interrogarmi. Ho provato a guardarci dentro e ho capito che c’era probabilmente qualcosa nella vita di Canova che mi interrogava come persona. A quel punto ho deciso di affrontare l’argomento solo come scrittore e non come studioso, quindi è nato quel primo romanzo storico. Poi è venuto “Nella pietra e nel sangue” per lo stesso motivo: ho incontrato, grazie a un amico dantista, una tematica che mi è sembrata importante, che ci interroga ancora oggi. Credo che in fondo questi romanzi storici, anche quelli che verranno, saranno sempre legati a un qualche interrogativo esistenziale che sento ancora attivo”.

Un modo diverso di raccontare l’attualità, Anche perché non riusciamo a raccontarla come dovremmo nel momento in cui la viviamo? E quindi si ricorre alla storia per capire le origini e l’evoluzione?
“È un modo per andare a vedere le radici delle cose di cui permangono gli effetti. Ad esempio, quello che si scopre dentro questo ultimo romanzo è molto forte: il coinvolgimento dei puri nei rituali di punizione, per la nostra identità culturale di cattolici, di illuministi, di occidentali è un grande peso. Per secoli, sotto l’egida della Chiesa, nei paesi mediterranei si coinvolgevano gli innocenti in rituali di pena, questo ci dice qualcosa di profondo su di noi , anche come società della violenza. In qualche modo si tratta di provare a vedere l’inizio di qualcosa che poi dura nel tempo, anche in positivo, come nel caso del Canova dove ci sono valori positivi. Serve anche a ricollegarsi alla storia come qualcosa di vivente”.

È molto particolare e coinvolgente, nell’ultimo romanzo, il linguaggio che utilizzi nei capitoli in cui racconti le vicende di Pier delle Vigne e di Federico II, una prosa carezzevole, quasi epica. Ha richiesto uno studio e uno sforzo particolari?
“Ho letto tanta prosa del Duecento. Pier delle Vigne è stato un autore di prosa molto pregevole, ritengo che sia il maggior autore di prosa latina del tardo Medioevo, quindi me lo sono letto, per prendere il suo ritmo, le sue metafore. Poi ho letto anche altre cronache medievali, per esempio il monaco di Parma, Salimbene de Adam, molto antimperiale che però racconta tutto l’assedio di Parma, ma anche la “cronica” dell’Anonimo romano, “Le meraviglie di Milano” di Bonvesin de la Riva. Un modo per entrare in sintonia con il linguaggio e per trattenere un po’ delle metafore, della fraseologia, di quella prosa”.

Stai scrivendo una nuova storia? Ci sarà sempre un pizzico di giallo?
“Sto studiando e lavorando alla scaletta del nuovo romanzo. Sarà ambientato all’inizio del Novecento, nella Mitteleuropa di un secolo fa. Ci sarà un mistero, ma narrato senza una detection, anzi i misteri saranno due, legati a un’opera d’arte: un mistero antico e uno moderno, su quando quest’opera è stata fatta e cosa è successo dopo. Ci sarà un personaggio depositario di questo doppio segreto e che si farà carico di raccontare la storia. Comincerà con due segreti da sciogliere e un finale in cui il lettore conoscerà tutti e due”.

Chiudiamo con l’attualità: cosa resterà, anche nella scrittura, di questa epidemia? Se fossi un editor, una volta finita, pubblicheresti romanzi sul coronavirus?
“Credo che li cestinerei a prescindere, perché come essere umano non ne posso più. Peraltro, se guardiamo all’editoria del Novecento, dopo i grandi periodi di crisi, di solito si vendono libri consolatorii, come è successo dopo le grandi guerre mondiali: storie d’amore che finiscono bene e cose simili. Certo, però, che bisogna fare i conti con il tempo in cui viviamo: chiunque volesse scrivere una storia, di qualsiasi tipo, ambientata nell’Italia dell’oggi, rischia di dover tenere conto di questo argomento ingombrante”.

MilanoNera ringrazia Gabriele Dadati per la disponibilità

Michele Marolla

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