L’autrice tiene il lettore in un limbo, in un mondo intermedio, un posto tra la vita e la morte.
Quale migliore scenario che la rianimazione del Kate’s Hospital di Londra, un aracnide grigio, uno dei più brutti edifici della Gran Bretagna, ove dirigere la nostra lente di ingrandimento? Abbiamo anche il numero del reparto di terapia intensiva, il 9B, dove troviamo Frank Ashcroft, cinquant’anni, ammesso due mesi fa, invecchiato e ingiallito da allora “come un orsetto di peluche troppo amato”, in uno stato vegetativo persistente, luci accese senza nessuno in casa, che riesce ad ascoltare e percepisce gli stimoli tattili, nonostante l’incapacità di muoversi e persino di respirare autonomamente, ha un rapporto di complicità con Alice Marlowe, una delle infermiere della rianimazione, e ha solo una figlia che va a trovarlo.
Respiriamo il clima dei turni delle infermiere, del monitoraggio beat to beat del malato, del metronomico funzionamento del respiratore, del ciclico gocciolare dei farmaci, del giro dei malati da parte del medico, il Dottor Sharma, che ripete in modo monotono le terapie.
L’altro letto è di Cassie Jensen, una donna in coma, investita da un’auto la notte di Capodanno mentre cercava il cane che era scappato, perché impaurito dai fuochi d’artificio, è caduta nel torrente accanto alla strada, “il torrente era abbastanza stretto e la ospitava bene, comodo come una bara”. Intorno a Cassie un corteo di familiari e amici che si interessano di lei: un marito premuroso Jack, e una suocera Charlotte, molto presente. La madre di Cassie, April, è morta da pochi mesi, una donna che rideva facilmente e amava con tutto il cuore, sposata con Marcus, il patrigno di Cassie, un funzionario statale in pensione dell’isola di Wight, un uomo strano un po’ spento, sposato con sua madre appena cinque anni prima che lei morisse. Nicky è la migliore amica di Cassie, dai capelli rossi intrecciati, troppo grossa per le cose carine e Johnny, il vicino di casa, socio nell’attività di produzione e vendita delle marmellate artigianali alle fiere di paese.
Nonostante i malati arrivino in coma e praticamente privi di vita cosciente, intorno a loro ruota tutto un mondo che continua ad appartenere a quelle persone e che ha un impatto enorme sul reparto, “un’operazione ben bilanciata: empatia stemperata dal realismo”.
L’ospedale accoglie così una parte della vita di tutte queste persone, all’interno della quale si intersecano rami di vita esterna, che inevitabilmente scorre. Foto che vengono pubblicate su Facebook, appese sui letti, per ricordare ai malati la loro vita antecedente, quello che loro erano e purtroppo non saranno più, ma servono anche a raccontare una storia di felicità nel tentativo di convincere il mondo che vada tutto bene perché se gli altri pensano che siano felici, allora lo saranno senz’altro…
Il ritmo della narrazione di “La bugia perfetta” è estremamente lento, quasi a mimare lo scorrere ritmico dei giorni in un reparto di rianimazione, gli accadimenti sono tutti inanellati e connessi, come i raccordi delle flebo, e questo permette al lettore di arrivare autonomamente a risolvere l’arcano, imbattendosi in ostacoli imprevisti e percorsi impervi, rendendo così avvincente e appassionante l’epilogo.
La bugia perfetta
Valeria Arancio