A tu per tu con Eraldo Baldini

Esponente di spicco della letteratura noir italiana, Eraldo Baldini, esperto di antropologia culturale e di etnografia, da anni riscuote un grande successo anche all’estero con i suoi romanzi “gotici”, che hanno reso la sua terra d’origine, l’Emilia Romagna, uno sfondo credibile e forte per storie che fanno paura. Misteri, leggende popolari, paure ataviche, superstizioni, orrori e suspance si insinuano in mezzo alle storie raccontate da Baldini, facendo tenere il lettore sempre col fiato sospeso. Baldini ha da poco ultimato un romanzo, che uscirà a febbraio 2011 e per ‘MilanoNera’ ha accettato di parlare della sua vena letteraria e del suo successo.

I riferimenti al folklore e alle paure ataviche che trapelano dalle tue opere – una per tutte “Gotico rurale” – ti consacrano esponente di spicco del gotico italiano. Tra le varie ambientazioni delle tue storie, preferisci le asperità dell’Appennino tosco-romagnolo o le nebbie della Pianura Padana (Comacchiese e Ravennate)?

Quelle che prediligo sono le ambientazioni in luoghi in cui la natura sia ancora padrona, ancora non cancellata né addomesticata dall’uomo; poi, che si tratti dell’Appennino (da cui proviene mia madre) o della Bassa (luogo di nascita per me, e di origine della mia famiglia paterna), non fa molta differenza: entrambi gli scenari sono ricchi di fascino e di suggestioni, anche e soprattutto narrative. Sono zone in cui posso facilmente collocare le mie storie e muovere i miei personaggi, sia quelli materiali che quelli partoriti dall’immaginario collettivo di comunità che, per vivere, dovevano fare quotidianamente i conti con l’asprezza del loro ambiente, con la preponderanza di una natura né buona né cattiva, ma solo “potente” e piuttosto indifferente ai destini degli umani. Sono quelle le aree in cui le credenze della cultura popolare e contadine, le vecchie leggende e superstizioni, ancora trovano modo di concretizzarsi, di ri-manifestarsi e, anche, di inquietare.

Nel salotto letterario “Librandosi 2010”, Carlo Lucarelli, presente insieme a te, ti ha definito “lo Stephen King italiano”. Ti ritrovi in questa definizione? Come hai affinato nel tempo le tecniche della suspance?

King è “il re” di nome e di fatto: mi lusinga molto essere in accostato a lui, ma il paragone è ovviamente esagerato, perché lo scrittore del Maine è uno dei migliori romanzieri, o meglio “narratori”, degli ultimi decenni, perlomeno in alcune sue opere (non tutte sono davvero riuscite appieno). Ha una grande naturalezza di scrittura e una assoluta capacità di trascinarti dentro le spire delle sue trame, riuscendo a operare perfettamente quella che Coleridge definiva “la sospensione dell’incredulità”. Ciò che mi può in qualche modo accostare a King è la scelta di collocare le storie nell’ambito del mistero e spesso del soprannaturale, di prediligere le ambientazioni rurali o comunque relative alla “provincia” e di usare molto i bambini e gli adolescenti quali personaggi. Per quanto riguarda le tecniche della suspance, credo che s’apprendano soprattutto leggendo i maestri del settore: da quelli bravi c’è sempre da imparare.

Sempre a “Librandosi”, durante la presentazione del tuo “Come il lupo”, hai dichiarato che “la scrittura diventa una sorta di vita parallela rispetto alla realtà quotidiana e il narratore continua a pensare alla trama e ai suoi personaggi anche mentre si occupa di altre cose”. Scrivere noir induce l’autore a vivere in sospeso, “come se fosse una possessione” sino al termine del processo creativo. Quanto tempo può durare questa sorta di vita parallela? Quanto incide la suspance nel corso della narrazione?

Scrivere narrativa è faticoso e difficile proprio perché costringe chi lo fa a “vivere un’altra vita”, calandosi nella mente e nei gesti di “altri da sé”, magari trasferendosi col pensiero in luoghi e tempi lontani. Insomma, è un esercizio in qualche modo “innaturale” che costa molta energia e che implica una immersione totale e continua in quell’ “altrove”. Ma quella fatica rappresenta anche una opportunità eccezionale: vivere “molte altre vite” oltre alla propria è una fortuna, un privilegio. L’immersione totale e continua dentro la storia che si sta scrivendo non è, poi, solo degli scrittori noir o dell’applicazione della suspance: è, credo, un dato tipico di chiunque si cimenti col romanzo.

Il tuo “Mal’aria” è diventato anche una fiction televisiva di successo, con Ettore Bassi, Sarah Felberbaum, Stefano Dionisi, Francesco Salvi, ecc. Quali sono le differenze tra lo scrivere un romanzo e una sceneggiatura (televisiva, cinematografica, teatrale)? Come ti sei trovato a lavorare in quest’ultima dimensione?

Non ho partecipato alla sceneggiatura di “Mal’aria”, ma lo ho fatto per altri lavori. E’ un esercizio certamente diverso rispetto a quello della stesura di un romanzo, perché occorre forse minore sforzo sullo stile e maggiore attenzione alle regole “tecniche” tipiche delle sceneggiature. Amando sia i libri che il cinema e la fiction in generale, mi piace molto cimentarmi anche nel dar vita a film o telefilm, ma sono pienamente a mio agio solo nella scrittura narrativa di un romanzo o di un racconto: lì la mia fantasia non soggiace a limiti, lì posso lavorare “da solo” (cioè senza dovere tener conto delle esigenze di regista, produttore, fotografo, ecc.), lì non ho budget realizzativi che mi limitino. Insomma, mi ritengo uno scrittore che ogni tanto fa sceneggiature, ma il mio vero lavoro è il primo, così come la mia vera passione.

I tuoi romanzi il più delle volte intrecciano il mistero a eventi storici di un passato più o meno remoto: ad esempio in “Quell’estate di sangue e di luna” ci tuffiamo nell’estate del 1969, quando la navicella spaziale Apollo 11 condusse l’uomo sulla Luna. In “Come il lupo” si passa dalle agitazioni sindacali del dopoguerra alla realtà del Seicento in Valchiusa, con le sue leggende e superstizioni. Quale messaggio vuoi lanciare con questo intreccio tra presente e passato? Che peso ha la tua formazione di antropologo culturale in tutto ciò?

Partiamo dall’ultima domanda: la mia formazione di antropologo culturale e di storico ha certamente un grande peso nella mia narrativa: amo quelle discipline, i loro contenuti e mi rifaccio spesso alle informazioni e suggestioni che comportano. Quando poi ambiento le mie storie nei decenni della seconda metà del Novecento, non faccio che riandare alla mia infanzia e adolescenza, mettendo a frutto le emozioni che mi hanno segnato in quelle età. Non c’è alcun messaggio particolare, in questo: io credo che tutti noi, in fondo, viviamo in un presente che non è altro che il frutto del passato.

I bambini e le donne sono protagonisti principali delle tue opere, assumendo spesso il ruolo di carnefici oltre che di vittime (ad esempio in “Bambini, ragni e altri predatori”). Vuoi parlarci di questa tua predilizione?

La cronaca ci dice ogni giorno che gli esseri umani sono capaci di qualsiasi cosa, e che nel quotidiano e nel domestico si possono annidare crudeltà. I bambini, nello specifico, non essendo ancora condizionati dal politically correct, cioè da sovrastrutture comportamentali, hanno a volte atteggiamenti molto “diretti”, quasi primordiali, che ai nostri occhi appaiono intrisi di molta durezza.

Quanto c’è del pessimismo cosmico leopardiano e della concezione della natura matrigna e malefica nella letteratura gotica?

Per quanto riguarda il pessimismo di stampo leopardiano non generalizzerei, direi che occorrerebbe distinguere autore per autore. Riguardo alla visione della natura, non posso parlare per un “genere”, ma per me: come ho detto prima, la natura nelle mie storie è sia madre che matrigna, ma non per questo è “malefica”: è solo potente, numinosa, e da quella concezione di “potenza imprevedibile” in cui il naturale si confonde col soprannaturale sono nate le forme di quella cultura folklorica e di quell’immaginario che amo così tanto.

Per settimane “Acqua in bocca”, il thriller scritto a quattro mani da Carlo Lucarelli con Andrea Camilleri, è stato in cima alle classifiche dei libri più venduti. Non pensi anche tu in futuro di cimentarti nel genere poliziesco che evidentemente riscuote maggiormente i favori del grande pubblico rispetto al genere noir?

Non mi piace molto il poliziesco, neppure da lettore, e inoltre non scrivo per ottenere “grandi vendite” ma per fare, possibilmente, buoni libri: cosa che non potrei realizzare cimentandomi in un genere che non “sento”.

Quali progetti hai per il futuro? La scorsa estate avevi anticipato che stavi ultimando un romanzo…

Sì, l’ho finito e consegnato da un paio di mesi: si intitolerà “L’uomo nero e la bicicletta blu” ed uscirà per Einaudi a febbraio. Tanto per cambiare, i protagonisti principali sono due bambini che vivono in un paesino di campagna, nei primi anni Sessanta.

Katia Romagnoli

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