Confessione Reporter



stella pende
Confessione Reporter
Ponte alle Grazie
Compralo su Compralo su Amazon

Quello che non ho mai scritto

Non è solo una questione di adrenalina. Scegliere di essere reporter, inviati nei Paesi in guerra, in quelli devastati da catastrofi apocalittiche o, ancora, in luoghi maledetti in cui sono in atto trattative disperate per uscire da stati di crisi senza soluzione, oppure ritrovarsi nel bel mezzo del day after che segue a una qualsiasi delle tante sciagure planetarie, è sempre la risposta a un bisogno che viene da dentro. Il bisogno insopprimibile di essere lì e in nessun altro luogo, per mettere nero su bianco fatti dei quali altrimenti si perderebbe la memoria e, con la memoria, anche la verità. Per sempre.

Dall’essere lì, proprio nel momento cruciale in cui tutto accade, nascono reportage indimenticabili nei quali i reporter si sforzano di riversare i fatti nudi e crudi. Non giudizi, pensieri opinioni. Fatti. Solo fatti. Tutti.

Ma per quanto si sforzino, non ci riescono quasi mai perché è proprio questa la parte più difficile del loro mestiere: raggiungere l’imperturbabilità, ovvero la capacità di essere, per così dire, asettici col pensiero e i sentimenti prima ancora che con la scelta delle parole.

Sembra facile produrre un pezzo rigorosamente imparziale, ma nella realtà non è così: basta usare un vocabolo piuttosto che un altro o inserire inavvertitamente un aggettivo o, ancora, iniziare la narrazione da un punto piuttosto che da un altro, per rivelare quello che si prova e da che parte sta. Ma non basta: bisogna anche fare i conti con l’opportunità politica e sociale del momento, con l’aria che tira, con le posizioni contrapposte, con le parti in gioco, con la credibilità delle notizie. E questo significa che lo scrivere tutto, ma proprio tutto, senza tagli né mediazioni, non dipende dalla libera scelta del giornalista. Il più delle volte quello che appare sui giornali è solo la parte di un tutto. Una porzione di verità frutto di estenuanti mediazioni con la linea politica del giornale e con lo spazio di carta che è concesso (diecimila battute spazi compresi, non una in più!), con l’opinione personale di chi sta sopra, con la disponibilità delle proprietà a lasciare la briglia sul collo ai giornalisti.

E spesso accade che quello che non si può scrivere, quello che viene tagliato dai capiredattori, che non può entrare in pagina, resti lì, sospeso, anche se magari è la parte migliore della realtà. E’ la parte più vera perché percepita con i sensi e con l’istinto.

Stella Pende, grande reporter di grandi giornali come l’Espresso e Panorama dei tempi migliori, oggi autrice di un programma Mediaset tutto suo che porta lo stesso titolo di questo libro, è stata consapevole fin dal suo primo servizio importante che non avrebbe mai potuto utilizzare tutto il materiale raccolto, tutti gli appunti. E così, pensieri, impressioni, voci, volti e tutti gli innumerevoli frammenti di “verità” che non hanno trovato spazio negli articoli, sono stati conservati per dare vita a tanti “fermo immagine” privatissimi, utili per comprendere meglio avvenimenti successivi.

All’origine l’idea di Stella era di creare un collage con interviste ai “padroni d’Italia” Romiti, Confalonieri, gli uomini del caf , i potenti di tutto il mondo e i mariuoli di casa nostra. Poi però i fatti hanno per così dire mangiato la scena. C’è stata la guerra in Bosnia, Sarajevo, la crisi in Cecenia, la strage di Beslan… Cimiteri su cimiteri, grandi uomini mescolati a macellai, eroismi e meschinerie planetarie. E la reporter Pende, catapultata ai quattro angoli del pianeta, di conflitto in conflitto, di catastrofe in catastrofe si è ritrovata con una quantità imponente di materiale inutilizzato e assolutamente prezioso. Spesso più interessante di quello pubblicato.

Impensabile buttare via tutto.

E’ nato così Confessione reporter: un grande reportage sui reportage che racchiude nelle sue 294 pagine quello che Stella non ha mai potuto scrivere. E cioè il backstage di ogni maledetto servizio: appuntamenti strappati , attese, paura di non farcela a portare a casa l’osso, lotte con le autorità locali, con i colleghi delle testate concorrenti, col mondo intero. E poi, insidie, buche, direttori ostili, colleghi talvolta insperatamente amici generosi ma spesso insopportabili carogne. E tanta commozione doverosamente trattenuta ma pagata con notti insonni, incontri fulminanti, addii laceranti. E, ancora, i riti della redazione, le manie dei colleghi, le pretese dei capiredattori. In altre parole: tutto il bello, il buono e il cattivo di quello sporco mestiere che è il giornalismo.

Ecco l’incipit, che non appartiene solo questo libro, ma è ormai consegnato alla storia degli ultimi decenni.

“Sarajevo è stato l’inizio di tutto. Una finestra affacciata sul dolore dell’umanità dolente e sulla ferocia della guerra aguzzina che trita eventi e innocenti, mentre tu, inviato coi rotoli dei dollari nelle scarpe, rimani lì immobile e impotente come una statua di gomma. Dalla tolda dei tuoi giornali ti ordinano di rimanere spettatore, di carpire qua e là, come una beccaccia scribacchina, qualche brandello di vita o di morte a quei poveri disgraziati. Ma alcuni di noi non ce la fanno.”

adele marini

Potrebbero interessarti anche...