I lunghi coltelli – Irvine Welsh



Irvine Welsh
I lunghi coltelli
Guanda
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Lo avevo iniziato da poco, neanche trenta pagine. Ero in metropolitana: a una delle fermate entra una donna sulla quarantina. Il ragazzo seduto accanto a me la saluta e inizia a conversare. Lui, non lei. Lei palesemente non ne ha voglia. Si mettono a parlare di lavoro, probabilmente sono colleghi. Lui continua a parlare. Lei risponde: sempre poche parole, sfacciatamente di cortesia.  

Ecco, leggere “I lunghi coltelli” è guardare lei esplodere improvvisamente e sprigionare quell’urlo trattenuto già troppo a lungo. È lei che gli sbatte in faccia il suo totale menefreghismo. Ed è guardare lui ritrarsi, imbarazzato e irritato insieme. Esita per qualche secondo pensando a cosa sia meglio fare: se lasciare perdere oppure reagire dicendole che anche a lui non frega nulla. Che è solo pro forma. Se sfruttare l’occasione per rimbalzarle in faccia la sua maleducazione, la ragione per cui tutti in ufficio la detestano pur non dicendolo apertamente in quanto manager. 

Leggere “I lunghi coltelli” è andare oltre. È prefigurarsi scenari sanguinolenti. La rabbia che sfocia in violenza. Lo sconcerto per la gratuità, l’insensatezza del gesto. Il brivido, l’inerzia di quanti assistono senza intervenire. È immaginarsi la polizia isolare la scena del crimine. Le chiazze di sangue ovunque. Lei o lui esangui su una barella. Il taglierino a terra. E i titoli dei giornali. “Follia omicida”. “Discussione in metropolitana finisce nel sangue”.  

Leggere “I lunghi coltelli” è scavare in questa violenza. Non per cercare una ragione ma per stanarne la verità, l’umanità dentro. Il male ha una sua verità, una sua umanità. Ed è nel male stesso. È nel malessere che nascondiamo agli occhi altrui mentre ci divora dentro. È nelle dipendenze, la sessuomania, l’alcool, le droghe, che lentamente ci distruggono. È nelle pulsioni più recondite, quelle per cui proviamo anche vergogna pensando a come possano apparire “deviateincomprensibili”, soprattutto nello sguardo della società. È nella mano che evira, che uccide, che molesta: donne e uomini, indistintamente. Ma anche bambini.  

La verità, l’umanità. Del male, nel male. La mano di Welsh la inchioda: la sua penna è la lama che recide i genitali di Ritchie Gulliver, un politico noto per le posizioni omofobe e razziste dietro cui si nasconde in realtà uno spregiudicato predatore sessuale che si sfama di donne, uomini e forse anche di bambini. La penna di Welsh nutre psicosi, demoni. Quelli contro cui l’ispettore Ray Lennox combatte senza successo sin dai tempi di “Crime”: punire la violenza per tenere a bada quegli impulsi autodistruttivi, violenti che crescono in lui. Desideri di vendetta, di rivalsa. Lui, abusato, a caccia di abusatori. Per non diventare anche lui, a sua volta, uno di loro: un abusatore. 

La penna di Welsh è il marciume che infesta case, palazzi del potere, apparati di polizia. È la voce innocente delle bambine uccise da Mister Pasticciere, serial-killer incapace di conoscere pentimento. È un grido di aiuto trattenuto: quello di Fraser, adolescente in lotta con la propria identità sessuale. È quello di suo zio Ray, l’unico che sembra capirlo. È quello di Trudi Lowe, la (forse ex) ragazza di Ray. È quello di Jim McVittie, un suo ex collega che ha completato il percorso di transizione per diventare donna e giace ora in fin di vita, picchiata brutalmente.  

È il grido di Bob Toal, il sedentario capo di Lennox ormai prossimo alla pensione che si strugge nel tormento per qualcosa di ancora irrisolto. È quello di Mark Hollis, poliziotto cocainomane che Ray incontra a Londra per indagare su un altro caso di evirazione, forse collegato.   

È il grido che, per una ragione o per un’altra, ognuno di noi vorrebbe lanciare contro qualcuno, contro qualcosa ma trattiene, ingabbiato dalle convenzioni sociali. È l’istinto omicida che reprimiamo. Impulsi violenti e pulsioni sessuali tenute nascoste: le coltellate che ci autoinfliggiamo. È la penna di Welsh ad assestarle. Lì, nero su bianco. La più affilata delle lame. Di quei “lunghi coltelli” il più tagliente: lui, Irvine Welsh, in grado di sprigionare il killer che è in noi. 

Giulio Oliani

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