South Lake, una piccola città del Texas più profondo, dove non succede molto a parte la sagra dei pompieri, il luna park, i fuochi di artificio del 4 luglio. Dove tutti sanno tutto degli altri, ma non abbastanza per conoscerli davvero. Dei Reed si sa davvero poco, due fratelli che hanno sposato due sorelle. Si sa che vivono in un tentacolare parcheggio di roulotte e che sono dei white trash, dei bianchi poveri, gente ai margini del processo produttivo, che tira avanti grazie ai sussidi e all’abuso di alcol. Una figlia ciascuno, sorelle più che cugine: Khaki, minuta e armoniosa, dai capelli di oro pallido, soffici come le piume di un angelo e Rayelle, statuaria e appariscente, in perenne adorazione dell’altra. Destinate entrambe ad attirare le attenzioni degli uomini, più sfortunata Khaki perché le subisce dal padre che si accanisce sul suo corpo fin dalla più tenera età, inducendola a fuggire, nell’estate dei suoi sedici anni e nell’unico modo che conosce per salvarsi. Se ne va, seguendo un ragazzo che studia in un’università lontana. Rayelle resta sola, e si perde. In squallidi bar dove si concede a perfetti sconosciuti; più tardi, in un tentativo di convivenza e maternità. Ha solo ventitré anni, Rayelle, ma ha già perso una figlia, Summer, chiamata così perché l’estate è una promessa, ma annegata proprio sotto il sole, nei pochi centimetri di acqua di una piscina gonfiabile. Rayelle non prova più nulla e neppure vuole vivere. Dorme quasi sempre e, in quei pochi minuti in cui tenta di alzarsi, per stare in piedi deve aggrapparsi alle pareti della roulotte di sua madre. E beve, fino a perdere conoscenza. Una sera, per miracolo, riesce a trascinarsi in un bar e conosce Couper Gale, un giornalista free lance cinquantenne, con alle spalle molti lavori falliti e altrettanti divorzi. È in viaggio, Couper Gale, sulle tracce di un serial killer che uccide solo ragazze, poco più che bambine o giovani donne, lasciando una lunga scia di sangue nelle campagne assolate degli stati del Sud. Il giornalista si sposta a bordo di una Ford Gran Torino dall’improbabile color avocado e traina il suo piccolo caravan, lo Scamp del titolo originale. Rayelle accetta di seguirlo, un’altra fuga come quella della cugina. Il suo però sarà un viaggio di iniziazione ai misteri del suo passato, alle verità che non ha mai osato confessare, perfino a un tipo di amore, a lei sconosciuto e certo inaspettato, quello sollecito e generoso.
Il caravan (Carbonio Editore, Collana Cielo stellato, pagg.336) è il romanzo della femminilità violata, delle donne che non esistono perché figlie, mogli o madri di maschi che ne uccidono l’individualità. Con le percosse, l’abuso sessuale, l’intimidazione psicologica. Donne o bambine che finiscono “con la pancia piena di mostri”, figli non voluti, frutto di uno stupro occasionale o più spesso reiterato nel tempo. Il killer le accoglie, ne cura le ferite, le ama, e poi le uccide. Animato, sembra, da una sorta di fede hegeliana nel principio di distruzione che, solo, può consentire una successiva rigenerazione. Il killer muore ogni volta con la sua vittima e ogni volta risorge da quel sangue versato.
Il caravan è il romanzo del viaggio come metafora di vita. Il peregrinare del killer attraverso un Sud bagnato di morte – Florida, Virginia, Tennessee, Carolina, Texas – è anche cammino verso la decifrazione di un passato inconfessabile. Couper e Rayelle lo braccano da vicino, ricalcandone i passi, ma intanto si scoprono all’altro e confessano ferite e impossibilità. La Gran Torino di Couper, in quel viaggio che sembra interminabile, “avanza oscillando come una donna dai fianchi larghi” e Rayelle “sente il peso della macchina, e della Scamp a rimorchio, come fosse il suo stesso corpo”.
Il caravan è, soprattutto, il romanzo del Sud americano: spesso povero e degenerato, abitato da una paura che sempre più cede il passo alle superstizioni. Squallido di campi caravan, motel per il sesso a ore, parcheggi desolati, sbilenche insegne di freddi colori al neon. Eppure è anche una terra di toccante bellezza, in cui “il tramonto sgorga dall’acqua in diamanti accecanti” e gli alti fusti del mais si richiudono su chi passa come uno sconfinato oceano verde “pronto a inghiottirlo”.
Con Il caravan, romanzo dalla scrittura spoglia eppure acuminata e dolente, Jennifer Pashley s’inserisce a pieno titolo nella miglior southern literature americana che distoglie la sua attenzione dalle luci abbaglianti delle metropoli, per puntarla sulle terre del Sud, calde e alluvionali, in cui un’identità marcatamente rurale quasi induce una rassegnata rinuncia al progresso. Le parole dell’autrice si alzano nitide a dar voce a chi non ce l’ha, a quella moltitudine di donne, irreparabilmente “danneggiate”, che esistono solo per soddisfare la brama animalesca di uomini che dovrebbero invece rispettarle e proteggerle. Non diversamente da Toni Morrison per la quale nutre una fervida ammirazione, Jennyfer Pashley regala il primo piano agli invisibili e firma un romanzo che è molto più di un intrattenimento noir. Non credo invece che sia la celebrazione dell’omosessualità al femminile, come certa critica sostiene, ma piuttosto dell’amore rispettoso e gentile, che dona prima di pretendere. E che non ha genere, solo condivisione.
Con Il caravan di Jennifer Pashley, Carbonio Editore aggiunge un titolo di qualità e potenza a un catalogo che punta all’inconsueto, e ci riesce benissimo.
Il Caravan – Jennifer Pashley
Giusy Giulianini