Il patto

Alla fine lo hanno ammazzato.
Si chiamava Luigi “Gino” Ilardo, era un mafioso catanese “punciutu”, cioè affiliato a Cosa Nostra col rito del sangue e del fuoco. Legato alla famiglia Madonia di Caltanissetta, quella del vecchio boss Don Ciccio, era però un mafioso anomalo, perché dopo aver saputo che suo cugino Piddu Madonia era implicato nelle stragi del ’92 in Sicilia e nel ’93 a Firenze, Roma e Milano, aveva deciso che di sangue umano se n’era sparso abbastanza.
Ilardo stava scontando dieci anni per associazione mafiosa e reati vari. Il suo non era proprio un “pentimento” perché di fatto lui non si pentì mai. Però quello che volle fare, sotto il profilo delle indagini era qualcosa di ben più importante e più pericoloso. Qualcosa che non si era mai verificato prima e che non si verificò più: infiltrarsi in Cosa Nostra per arrivare al rifugio segreto del padre di tutti latitanti: Bernardo Provenzano.
Un giorno, dalla sua cella del 41 bis, Gino Ilardo mandò una lettera al capo della Dia, Gianni De Gennaro, nella quale sostenne di essere in grado di ricostruire l’intera strategia stragista del ’92-’93. Se lo avessero messo in libertà, scrisse, si sarebbe infiltrato in Cosa nostra e avrebbe lavorato per la giustizia.
Venne accontentato.
Attenzione: siamo nel ’94. Ilardo ottiene un permesso premio ed esce dal carcere per mettersi al servizio del colonnello Michele Riccio della Dia di Genova.
A Riccio, che in seguito viene aggregato ai Ros di Palermo, tocca lo scomodo incarico di gestire da solo l’infiltrato che si nasconde sotto il fragile paravento del nome in codice “Fonte Oriente”.
Gino Ilardo è un mafioso di grosso calibro. Una volta fuori dal carcere torna nel giro e riesce a mettersi in contatto con Bernando Provenzano, l’inafferrabile “zù Binnu”, proponendoglisi come pacificatore delle famiglie catanesi in subbuglio dopo la cattura di Riina. Intanto riferisce tutto quello che sente e che vede al suo referente, che annota tutto sulla sua agenda e stende minuziosi rapporti di servizio.
Grazie a quelle rivelazioni, il colonnello Riccio sarà il primo a scoprire quel particolarissimo canale di comunicazione fra il boss e i suoi luogotenenti che sono i “pizzini”. Lo scoprirà, ma senza alcun vantaggio per le indagini perché i suoi rapporti non furono mai presi in considerazione e i pizzini restarono un segreto fino alla cattura di Provenzano avvenuta undici anni dopo.
In pochissimi mesi la “Fonte Oriente” ricostruisce l’intero organigramma di Cosa Nostra nelle province orientali siciliane, contribuendo alla cattura di decine di latitanti di grosso calibro. Ma non si ferma, perché il suo obiettivo è quello di decapitare Cosa Nostra.
Al rifugio di Provenzano arriverà il 31 ottobre 2005. Vinta la diffidenza di zù Binnu, Ilardo riesce infatti a farsi “convocare” nella masseria di Mezzojuso, a pochi chilometri da Palermo, la stessa in cui il boss verrà catturato undici anni dopo.
Potrebbe portare con sé l’intero reparto per le operazioni speciali, guidando gli uomini dell’Arma con un dispositivo elettronico inserito nella cintura, un gioiellino a prova di perquisizione prestato dall’Fbi, se il colonnello Mori e i suoi luogotenenti Mario Obinu, Giuseppe De Donno e Sergio Di Caprio (più noto come “Ultimo”) non facessero resistenza passiva con un tiepido “andate avanti voi e poi fateci sapere… “ quando invece sarebbe stato il momento di agire.
E’ strana quella flemma: Provenzano è un superlatitante, condannato a vari ergastoli. E’ il capo della Cupola. Come si fa a non capire? Possibile che non interessi la sua cattura?
Lasciato solo a gestire la “Fonte Oriente”, il colonnello Riccio praticamente supplica Mori e i suoi. Niente da fare.
Ilardo si stupisce, Riccio si indigna, ma entrambi vanno avanti. L’infiltrato continua a muoversi dentro Cosa Nostra riferendo tutto quello di cui viene a conoscenza e sue rivelazioni fanno arrestare molti mafiosi di rango, creando vuoti di potere dentro la Cupola. Continua anche lo scambio di “pizzini” fra Provenzano e Ilardo che praticamente scrive sotto dettatura del colonnello Riccio. Ma i Ros sembrano fare muro.
Dopo l’incontro alla masseria, Ilardo fornisce anche la prima descrizione del boss, consentendo agli specialisti di disegnare un identikit che finalmente dà un volto all’inafferrabile zù Binnu, praticamente sconosciuto dato che l’unica foto in possesso delle forze dell’ordine risale a trent’anni prima.
Se si fosse voluto, se il generale Mori avesse dato l’ordine giusto, Bernardo Provenzano sarebbe stato arrestato nel 1995, cioè nel momento stesso in cui Luigi Ilardo mise piede nella masseria. Invece il covo rimase ‘segreto’, benché fosse praticamente sotto gli occhi dei carabinieri di una stazione vicina, fino all’11 aprile 2006, quando fu finalmente decisa l’irruzione.
Perché il generale Mori e i suoi rifiutarono ostinatamente e sdegnosamente di seguire le indicazioni precise e dettagliate dell’infiltrato? In altre parole: perché guardarono sempre e ostinatamente da un’altra parte?
Proprio dalla mancata cattura del superlatitante, salito al vertice della Cupola dopo la cattura di Salvatore Riina, ha origine il processo al generale Mori e al suo vice Obinu, processo che, di recente, dopo che sono state rese pubbliche le rivelazioni di Massimo Ciancimino, è stato impropriamente chiamato dai media “del papello” per via della virata verso la presunta trattativa dello Stato con Cosa Nostra, presumibilmente avvenuta nel ’93 per far cessare le stragi.
Stragi ordinate da Salvatore Riina, ma forse non volute solo da lui.
Se questo libro fosse un romanzo, sarebbe un noir al cui confronto i best seller di Dan Brown si ridurrebbero alla stregua di soggettini per soap. Purtroppo il contenuto è frutto di un’inchiesta seria e documentata, mentre l’epilogo dell’intera vicenda è cronaca. Nerissima.
Venduto a Cosa Nostra da una talpa dentro l’Arma o forse dentro la stessa Dia, Luigi Ilardo il primo e unico infiltrato di mafia, fu messo a tacere in una strada di Catania nel 1996 e nessuno per anni seppe quale fosse stato il suo ruolo. Quanto al colonnello Riccio, subì invece l’onta di un procedimento intentato sulla base di accuse infamanti. Venne condannato e incarcerato e oggi è un testimone chiave al processo del “papello”.
Perché non si volle catturare il superlatitante nel 1995? Chi era veramente quell’uomo schivo e affflitto da problemi alla prostata che governava la Sicilia da imperatore, dava ordini tramite i pizzini, guadagnava miliardi con le varianti al piano edilizio di Palermo e viveva come un miserabile, nascosto dentro una masseria per la maggior parte del tempo? Che ruolo ebbe nella cattura di Salvatore Riina? Ci fu una trattativa con lo Stato sugli improponibili diktat del “papello” stilato come una lista della spesa da Salvatore Riina? E, infine, mistero dei misteri, chi furono i veri strateghi delle stragi?
Nel 1994, mentre una mafia apparentemente più mansueta cessava di sparare e si inabissava, mentre la prima Repubblica veniva spazzata via da Tangentopoli, all’orizzonte del nostro paese si stava affacciando una nuova classe politica nata dal nulla, che in Sicilia fin dalle origini ha sempre fatto man bassa di voti. Praticamente un en plein a ogni appuntamento elettorale. Sarà un caso?

adele marini

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