La presa di Macallè



andrea camilleri
La presa di Macallè
sellerio
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Cominciare a leggere un libro di Camilleri è un po’ come incontrare un vecchio amico. Quello lo vedi per strada, ti si fa incontro a braccia aperte e comincia a parlarti con una voce familiare; questo te lo rigiri tra le mani, ne sfogli le prime pagine e ci ritrovi la scrittura inconfondibile, parole come “macari”, “taliare” e quelle come “addrumato”, aciddruzzo”, “picciliddro”, con quel “ddr” che si pronuncia quasi come il “dr” inglese, un suono a metà tra la “d” e la “g”.
Poi però succede anche che un vecchio amico ti debba raccontare una brutta storia, e se lo fa con un sorriso amichevole e con qualche battuta per sdrammatizzare, non per questo quello che dice è meno sgradevole. È questo che capita con “La presa di Macallè“.

La vicenda si svolge – a Vigata, inutile dirlo – nel 1935 al tempo dell’invasione dell’Abissinia da parte dell’esercito fascista; il protagonista è Michilino, un bambino di sei anni figlio del segretario politico del paese. Un bambino solo, nonostante gli si affollino attorno personaggi familiari e non, che sapendo già leggere e scrivere viene allontanato dalla prima elementare ed
affidato ad un maestro privato, e nella cui mente gli insegnamenti del catechismo e quelli della propaganda fascista si scontrano e si confondono portandolo a crearsi un proprio mondo fantastico in cui agli abissini “nivuri” ed ai comunisti si oppongono gli eserciti di Mussolini e di Gesù, eserciti di cui lo stesso Michilino si sente un combattente irregolare, armato di un moschetto giocattolo la cui baionetta ha lui stesso affilato ed appuntito come una vera. E in questo delirio lucido Michilino si costruisce una morale rigida cui obbedisce con inflessibile determinazione.
A Michilino viene sottratto tutto: affetti, amicizie, giochi, la stessa verginità; non però, contrariamente a quanto si afferma nel risvolto di copertina, la sua innocenza che lo accompagna fino alla fine di una storia che – nonostante le arguzie disseminate come al solito qua e là nella narrazione e la sensualità vulcanica che la caratterizza – mi sembra molto più cupa e pessimistica di tante precedenti opere di Camilleri, marcata com’è dall’epilogo crudo ed inesorabile.
“La presa di Macallè”, scritta pochi anni fa, é anche una storia che può essere letta in chiave attuale: basti pensare all’onnipresenza della propaganda, strombazzata ad altissimo volume dalla radio – la televisione non esisteva ancora – alla figura incombente, istrionica e rassicurante del duce, all’esasperazione e alla criminalizzazione della rivalità politica (“Un comunista non è un omo, ma un armalo e perciò se s’ammazza non si fa piccato“). (ugo mazzotta)

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