Nebbiagialla. Suzzara 2/4 febbraio-Gli ospiti: intervista a Stefano Brusadelli – Gli amici del venerdì

Stefano Brusadelli è nato a Roma il 13 febbraio del 1955. Ha lavorato per molti anni nei giornali, tra cui i periodici  Il MondoPanorama, occupandosi in prevalenza di politica italiana. Ora scrive sulla Domenica, il magazine del Sole 24 Ore.
Nel 2010 ha pubblicato per l’editore Vallecchi Piccole atrocità, una raccolta di racconti ambientati nella Capitale. Il suo primo romanzo, I santi pericolosi, è uscito per Mondadori nel 2013 e ha vinto il premio Raffaele Crovi per il miglior esordio nel genere noir.
Nel 2015 ha pubblicato Le ali di carta (Palombi), cinquanta incontri con personaggi italiani che parlano del loro libro della vita. Il suo ultimo romanzo, Gli amici del venerdì (Mondadori), pubblicato nel 2017, è un perfetto noir fortemente radicato nel sociale in cui l’autore ha riversato la sua esperienza di acuto indagatore dei lati più oscuri dell’animo umano.
Stefano Brusadelli vive a Roma, è sposato, ha un figlio, ama l’enigmistica e il canottaggio. 

 51w5caPPtfL._AC_US218_Il tuo protagonista Ausilio Serafini è un personaggio tragico che sembra camminare con la morte appollaiata sulle spalle. Uno sbirro tutt’altro che simpatico eppure proprio per questo tanto più interessante. Curiosa questa tua decisione di sottrarti alla regola non scritta di dare un aspetto affascinante al tuo investigatore. Ti sei ispirato a qualcuno in particolare?
Non esiste un modello preciso. Scrivendo Gli Amici del Venerdì, come del resto avevo fatto con I Santi pericolosi, ho cercato – anche pagando il prezzo di una più difficile “commerciabilità“ del libro – di allontanarmi quanto più possibile dai cliché di genere. Niente investigatori intrepidi, infallibili, irresistibili, nei quali magari un certo tipo di lettore vorrebbe identificarsi. Racconto individui  ammaccati dalla vita, alle prese con malanni fisici, afflitti dalla paura, dal rimorso e soprattutto dalla solitudine. Cioè gli esseri umani più imprevedibili e misteriosi di tutti, perché il dolore scava nelle anime le gallerie più lunghe, e insondabili.

 Anche il comprimario, Nicola Desiderato è tutt’altro che avvenente. Come la figlia e la moglie.  Pare quasi che la scarsa avvenenza dei personaggi, la loro pochezza morale, voglia sottolineare lo squallore dei luoghi e la malvagità delle azioni. E’ così?
Non voglio che dalla narrazione emerga un giudizio morale. Quel giudizio spetta semmai al lettore. Desiderato sopporta il peso di antichi drammi nascosti, e di tante delusioni professionali; anche lui è ammaccato dalla vita. Ma tutto sommato, a differenza di Serafini, conserva ancora un barlume di fiducia nella giustizia.

Il quartiere di Roma in cui hai ambientato la storia è il Tiburtino, alle spalle della stazione, descritto in modo così minuzioso da entrare di prepotenza anch’esso nel romanzo come un protagonista muto. C’è una ragione in questa scelta o l’azione avrebbe potuto avere luogo in un altro municipio?
La periferia romana è luogo dotato di una solennità drammatica che non si ritrova in nessun’altra periferia al mondo. Non è un caso se Pasolini sceglie Bach e Vivaldi come colonna sonora di Accattone e Mamma Roma. Ma tra tutte le periferie, a me pare che il Tiburtino sia la più angosciosa, e struggente, proprio per l’impatto visivo dei suoi giganteschi casamenti che nel tratto iniziale appaiono allineati in una interminabile prospettiva rettilinea, dunque ancora più impressionante.

 L’omicidio di Gerardo Pavese, particolarmente cruento, avviene in un  anonimo palazzone di edilizia popolare. Un condominio in cui pare che nessuno si conosca mentre la realtà di tutti i giorni suggerisce che in posti così nessuno si fa i fatti propri. La tua esperienza professionale ti ha forse guidato nella scelta della location oppure ti sei semplicemente affidato alla fantasia?
Mi è capitato in un certo momento della mia vita di abitare in un simile palazzo. In essi le esistenze procedono come rette parallele, destinate a non incrociarsi mai. Più numerosi sono gli abitanti, più veloce è il loro ricambio, tanto più sono scoraggiate le relazioni, e prevalgono le diffidenze, le paure, i sospetti. E dunque la curiosità sulla vite altrui, che è un impulso connaturato agli esseri umani, non si affida alle parole, ma all’ascolto dei rumori. In quei casamenti ci si svela attraverso i rumori, non attraverso le parole.

 Perché dal giornalismo sei approdato proprio al genere noir ?
Non credo esista una sola ragione. Il noir deve essere scritto con un ritmo e con un’asciuttezza che sono tipici del buon linguaggio giornalistico. Nel noir non deve esserci alcun intento pedagogico, di nuovo come nel buon giornalismo: è il lettore che traccia il suo personale confine tra il bene e il male. Infine, è un genere che consente una forte adesione con l’attualità. Soprattutto in Italia, dove abbiamo molto sofferto (e in qualche misura continuiamo a soffrire) di un’informazione giornalistica talvolta cieca, spesso miope o compiacente. In molti casi la narrativa è arrivata ben prima del giornalismo a illuminare gravi criticità del Paese. Penso alla mafia sviscerata dai romanzi di Sciascia quando non poteva neppure essere nominata sui giornali siciliani. Alla potenza economica della camorra raccontata per la prima volta al grande pubblico da Saviano. Alla “Mafia capitale” già denunciata tanti anni fa da De Cataldo. O alla dimensione  criminale dell’operoso Nord est rivelata da Carlotto.

Quanto della tua esperienza professionale hai riversato nei  romanzi e, in particolare, in questo?
E’ impossibile, per chi fa il mestiere di giornalista, spogliarsene diventando narratore. Fanno parte del nostro bagaglio la ricerca dell’esattezza delle descrizioni, e della credibilità dei personaggi e dei dialoghi. Questo libro ha poi altri due genitori. Il primo è un antico interesse per le periferie romane, che considero – nonostante tutte le loro emergenze –  gli unici luoghi della città dove esistano ancora speranza, e creatività. L’altro è la consapevolezza della realtà di Roma come grande e diffusa realtà criminale, senza soluzione di continuità, dal basso all’alto, per usare un lessico di moda.

 A Roma si è radicata una criminalità organizzata particolarmente cruenta che non è proprio mafia in quanto non ne ha le regole ma agisce come se lo fosse. Dalla banda della Magliana mai del tutto debellata ai feroci clan fra cui i Fasciani-Spada, i Pelle, i Casamonica. Eppure tu, pur tracciando il profilo di un’organizzazione criminale, non ne parli mai esplicitamente. E’ un caso o una scelta precisa?
Sono sempre stato colpito da quel fenomeno tipicamente romano che è il subappalto del crimine, effettuato attraverso snodi situati talvolta negli stessi apparati di sicurezza. Macchine micidiali, senza nome, funzionanti a compartimenti stagni, e in grado di servirsi addirittura di manovalanza incensurata. Simili realtà hanno tristemente segnato in passato le cronache italiane. Oggi il Paese è meno opaco che negli anni ’70 e ’80. Ma temo che ora la crisi economica offra nuove possibilità per reclutare manovalanza criminale insospettabile.

 La bellezza di una città dai tramonti spettacolari per te sembra che non esista. In questo romanzo il tempo è sempre brutto. Piove e fa freddo. Oppure si soffoca per l‘afa. Il tempo grigio e umido è un modo per togliere ogni speranza di redenzione e di happy end?
La pioggia segna la prima parte del libro, ma l’afa insopportabile segna la seconda. Sono entrambe condizioni avverse, estreme, che finiscono con il rendere ancora più dure le partite che ciascuno dei personaggi deve giocarsi. La pioggia poi, a me è apparsa come una metafora della prigionia: è come se ogni riga di pioggia fosse una sbarra. Non è un caso se alla fine del libro, che pure non è certo un happy end, alla pioggia si sostituisce un fugace lampo di sole…

 Il vecchio macello, un capannone immenso e abbandonato in cui pare di udire ancora i lamenti degli animali terrorizzati. La descrizione è così efficace e minuziosa da far supporre che non sia frutto di invenzione. E’ così?
L’ex mattatoio del Testaccio è uno dei posti più intensi di Roma. Lì hanno sofferto e sono stati uccise milioni di creature evolute, e senzienti. Nonostante i lodevoli (e in parte riusciti) tentativi di riconvertirlo a luogo di cultura, e di svago, è come se la morte e la sofferenza impregnassero ancora ogni pietra, ogni sbarra di ferro. E’ dunque anche uno straordinario spazio letterario.

 C’è un dato autobiografico, nella cupezza, nella violenza e nella solitudine dei tuoi personaggi ?
Oggi, grazie a mia moglie Margherita, accanto alla quale ho la fortuna di vivere da 27 anni trascorsi non solo nell’amore, ma anche in un confronto che non si è mai interrotto, posso dire di essere un uomo privilegiato, e sereno. Ma prima che lei apparisse nella mia vita la solitudine mi ha molto segnato, e ho imparato che la vera e più dolorosa divisione tra gli esseri umani non è tracciata  dalla ricchezza o dal potere, ma separa chi è solo da chi non lo è. Quanto alla violenza, ci piaccia o no, essa è presente in ogni creatura; ed è meglio scaricarla sulla pagina (o in un film) che nella realtà.

E ora la domanda di rito a cui nessun autore può sfuggire. Hai qualcosa in cantiere? Se sì, ce ne vuoi parlare?
Il nuovo romanzo è una storia tra vecchi compagni di classe. Essere stati compagni di scuola crea grandi solidarietà, ma può creare anche rancori tenaci, inestinguibili.

Grazie a Stefano Brusadelli per la disponibilità

download (1)L’appuntamento con Stefano Brusadelli e Gli amici del venerdì
è a Suzzara (Mn) al Festival Nebbiagialla
2/4 febbraio.
Tutte le info al link Nebbiagialla 

 

 

 

 

Adele Marini

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