Brisa



Paola Rambaldi
Brisa
Edizioni del Gattaccio
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Spira con il soffio leggero di una brezza il titolo scelto da Paola Rambaldi per il suo primo romanzo, anche se l’assonanza è ingannevole visto che nei dialetti emiliani della Bassa il termine indica in realtà l’avverbio negativo per eccellenza. Brisa è anche il soprannome della sua protagonista, cocciuta infatti e indocile a tratti, una giovane che occupa una singolare posizione nella Gorino del ’56: sprovvista di fascino muliebre ma dotata di poteri paranormali, è la stria di paese, cui le donne gravide si rivolgono per conoscere il sesso del nascituro. Al posto della più classica sfera di cristallo, la sua lunga treccia passata sulle fotografie le permette anche di “vedere” il destino di chi vi è ritratto. Indipendente grazie a quel talento, il suo apporto economico al ménage familiare è più determinante di quello del padre e del fratello, entrambi pescatori. Brisa però è spesso emarginata per la scarsa avvenenza – occhi impari, naso importante, baffi che non conoscono l’abilità di un’estetista – e guardata con diffidenza dai compaesani, che non esitano comunque a servirsi delle sue arti divinatorie. Ed è quanto accade allorché sparisce Lucianino, figlio dodicenne della bella bottegaia locale, nonché fidanzata del fratello di Brisa, Tunaia. Brisa vorrebbe sottrarsi a quel compito, sente infatti che nulla di buono si nasconde dietro la sparizione, eppure non sa negare il suo aiuto e intraprende una ricerca che potrebbe costarle molto cara.
Tra favola nera e noir padano, Brisa ha il fascino dei racconti fioriti attorno ai focolari contadini, spaventosi e familiari al contempo.
In un crescendo di malvagità che ha il travolgente ritmo rock del primo album di Elvis Presley, pedofilia, vizi precoci e violenze famigliari infestano quel lembo estremo della foce del Po, dogana prima e paese dagli ultimi decenni dell’Ottocento, che pare animarsi solo all’arrivo del luna park e sulle note sfrenate delle sue balere.
A suonarle, quelle note, è lo strampalato quartetto dei Cavedani, titolo perfetto per non dimenticare la vocazione alieutica del luogo: Buio e Principe, oltre Tunaia e a Primino, fratello di Brisa il primo e oggetto di amore non corrisposto il secondo. Coprotagonisti di statura inconfondibile, l’autrice li ha presi a prestito dalla realtà per averli conosciuti davvero e aver saputo delle loro epiche gesta attraverso la Bassa, mentre trasportavano gli strumenti a bordo di malandate biciclette o addirittura di carri funebri. In quell’autunno del ’56, al quartetto si aggiunge Eoppas – bel solista dal ciuffo presleyano che deve il suo soprannome a una sconfinata passione per gli elettrodomestici Zoppas, la cui iniziale appunto era vergata nel logo con una zeta molto simile a una e – e una giovanissima Milva, cantante di sera e pescivendola di giorno.
Paola Rambaldi costruisce una galleria di personaggi incisivi e credibili, vividi nelle loro espressioni e nei gesti, perfettamente calati nella mentalità paesana e nella realtà del periodo storico. A tratti pare quasi di veder scorrere le sequenze in bianco e nero di Julien Duvivier, quelle sua terre padane di povertà e di calamità naturali, di cattiveria e di altruismo.
Impeccabile l’intreccio che appartiene tanto al romanzo sociale quanto all’indagine poliziesca. Quest’ultima affidata dall’autrice, con piglio ribelle, agli stessi protagonisti mentre il maresciallo e l’appuntato del caso vengono relegati sullo sfondo, nel ruolo di inutili e intempestive comparse.
Suggestiva l’ambientazione in quella estrema lingua di terra riarsa dal sole negli ultimi giorni di settembre e progressivamente sprofondata nelle nebbie e nell’insondabilità degli animi, man mano che avanza l’autunno e il male rivela il suo vero volto.
Lo stile dell’autrice è sicuro e convincente, il lessico colorito ma privo di indulgenze vernacolari, il ritmo narrativo esente da lentezze e pause superflue.
Un esordio davvero felice che ha senza dubbio goduto della lunga esperienza di Paola Rambaldi come scrittrice di racconti perché è risaputo – e alla prima bolognese del romanzo Romano de Marco lo ha ricordato, parafrasando Faulkner – che, dopo la poesia, i racconti sono il secondo genere più arduo. Dopo viene il romanzo.

 

Giusy Giulianini

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