Casta diva



Hans Tuzzi
Casta diva
Bollati Boringhieri
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La collocazione temporale è ancora quella degli anni ottanta: si direbbe che Hans Tuzzi si sia ispirato alle memoria della sua giovinezza, forse vissuta in una Milano che mai come negli anni del cosi-banalmente-detto edonismo reganiano e dell’irresistibile ascesa del craxismo è stata “da bere”. La collocazione geografica, invece, in questa ultima avventura del commissario Melis, non rimanda alle geometrie urbane di una città europea. Si direbbe che esca dai luoghi comuni milanesi su citati, per immergersi nella contemplazione di un paesaggio decisamente più romantico: la costiera partenopea. Tuzzi ci aveva abituato a scenari metropolitani, grigi di asfalto e cemento, costruiti sulla quotidianità operosa dei lavoratori salariati e sulla routine agiata dei professionisti. In “Casta diva” l’agiatezza diventa un lusso dal sapore decisamente decadente.

La scena si svolge in una villa d’epoca abitata da due immaginari artisti a riposo, con un vissuto che rimanda ad esistenze quale può essere quella di un Von karajan e una Maria Callas: lei risponde al nome di Frida Dechend, cantante lirica che celebra l’epilogo con l’area belliniana che dà il titolo al romanzo, mentre lui, Boris Benatof, l’accompagna al pianoforte suonando solo per le figure anonime, come Melis, il suo aiutante D’Aiuto e gli altri delle questura locale, che chiudono la vicenda, così come in passato aveva suonato per le più note e potenti personalità del pianeta. I due artisti ringraziano così coloro che li hanno salvati da un’infamante calunnia, quale sarebbe potuta essere un’incriminazione per omicidio, se il solito Melis, come nella tradizione del giallo, non fosse riuscito grazie alla sua prodigiosa intuizione a risolvere l’enigma di un omicidio preterintenzionale, che vedeva proprio Benatof come principale indagato.

La trama ruota attorno ad una compravendita di un carteggio fra un grande scenografo, De Quincy, e il suo ballerino preferito, Taginskij.  Benatof ne è quasi casualmente in possesso, e le ha vendute ad un ricco tedesco che muore la sera stessa della compravendita. Gioco forza, il pianista a riposo è il principale indiziato. A nulla valgono le ammissioni di ammirazione da parte di tutti. Gli stessi inquirenti sono scettici sul fatto che un artista così sensibile e umano possa aver dato una dose eccessiva di sonnifero al tedesco, anche se non con l’intenzione di ucciderlo – il tedesco soffriva di cuore ma nessuno lo sapeva, prima dell’autopsia- ma solo per addormentarlo e sottrargli le preziose lettere. Certo, però, che qualcuno l’avrebbe potuto fare al suo posto, un servitore fidato come Ngelè, che conosce il luogo e avrebbe potuto agire in vece del suo signore. Sembra che la pista sia quella giusta, malgrado lo sgomento di tutti. Ma poi, come nella tradizione, la mente pronta del protagonista coglie ciò che agli altri, lettore compreso, sfugge, ed ecco che in un passaggio fin troppo repentino si trova la chiave dell’enigma. L’umanità del mostro sacro, che per tutto il racconto esprime la sua omosessualità senza mai scadere nell’indiscrezione, anche corteggiando l’apollineo D’Aiuto, che, pur calato nel prototipo fin troppo scontato del maschio latino, non riesce a contenere un senso di ammirazione per la sensibilità dell’artista, malgrado il suo fermo ribadirgli “mi piace la figa”, la reputazione del musicista che incantava con la sua musica i monarchi del pianeta non vengono infangate. Il principale indiziato è scagionato. Sarà proprio il concetto dell’ammirazione per il creatore di bellezza, provata dai dotti e dai potenti, come dai popolani, la chiave di volta del giallo.

Così, Tuzzi ci regala divagazioni in merito ad un mondo etereo anche se assolutamente carnale: Benatof, come l’immaginario De Quincy e il ballerino Taginskij, quasi icone di un mondo dove la sessualità si ripiega su se stessa per divenire unicamente forza creativa, sono personaggi sospesi sulle ali dell’arte che sanno donare agli uomini. Le loro storie, le loro intimità solo ipotizzate, si coniugano con il candore del paesaggio partenopeo, fra le scogliere a strapiombo sul mare e i tramonti mozzafiato che ispirarono Leopardi e Ibsen, e che l’autore, quasi stesse soggiornando in loco, non si risparmia di descrivere, dando sfogo alla sua erudizione e al suo gusto per la raffinatezza.

Si spiegano così i tanti passaggi poetici, costruiti su figure retoriche misurate degne di un letterato esperto, e i nozionismi fin troppo impegnativi per il lettore medio, che forse non si immaginava di trovarsi di fronte a citazioni in greco antico, oltre che a quelle latine. Anche il gusto per il termine ricercato sembra più presente che negli altri romanzi, e nel proliferare di movimenti ritmici chiamati a celebrare la bellezza in sé, naturale come artistica, in un alternarsi di immagini eteree e sontuose, la trama sembra farsi evanescente. Il finale, infatti, quasi precipita nel cliché classico del giallo dannata: il colpevole è il maggiordomo. In questo caso si tratta di una cameriera, anziana, che ha lavorato anche per il De Quincy e che non voleva che la sua intimità fosse rivelata e profanata dall’opinione pubblica, se le sue lettere fin troppo intime con il bel ballerino russo fossero rimaste in mano ad un uomo d’affari tedesco, e non più ad un altrettanto nobile anima quale quella del suo nuovo padrone, Benatof, appunto. Lo spazio dato alla celebrazione di questi sentimenti così nobili, anche da parte della gente del popolo, per i grandi artisti non cede terreno alla trama, tanto che l’intuizione di Melis si risolve in un passaggio di poche righe, attraverso le quali la deduzione arriva come una fin troppo evidente ciliegina sulla torta.

 

Paolo Di Biagio

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