Donne che non perdonano



Camilla Läckberg
Donne che non perdonano
Einaudi
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La fama di Camilla Läckberg è indissolubilmente legata alla Fjällbacka Series che prende il nome dalla piccola città di pescatori che le ha dato i natali, consentendole di rivendicare il titolo di regina svedese del giallo.
Non per la prima volta – la Läckberg ha scritto dei libri di cucina e una serie di racconti per bambini – l’autrice tradisce i suoi personaggi più riusciti, la coppia composta da Patrik Hedström e da Erica Falck, ma il peccato di cui la si macchia è da ritenersi del tutto veniale.
Donne che non perdonano concretizza, con efficacia magistrale, quella che è, sin dalle sue origini, una prerogativa trasversale a tutta la letteratura crime nordica: la marcata attenzione per gli aspetti più controversi e oscuri dell’animo umano; una spinta insopprimibile volta a  rendere lo scenario raffigurato qualcosa di più di una semplice storia di evasione, trasfigurandolo in un vero e proprio veicolo di denuncia sociale, capace di portare il focus sulla complessità delle dinamiche che muovono le interazioni  collettive.
Il giallo scandinavo diviene cassa di risonanza per tutte quelle suggestioni di impronta sociologica; entra nel cuore pulsante – e più inquieto – dei conflitti relazionali; registra l’inventario di tutti quegli impulsi che conducono gli individui verso il crimine e ne restituisce una rappresentazione da cui vengono sferrate quelle sollecitazioni emotive che fanno da pungolo e spingono alla riflessione.
Entrando nelle incertezze che agitano i tormentati rapporti sociali, Camilla Läckberg non si sottrae a nessuno di questi imperativi e ci consegna un romanzo breve – o, se si preferisce, una novella lunga – in cui agguanta le tonanti sferzate che vengono dagli ultimi casi di attualità, ne fa vibrare i messaggi amplificandone la portata e conducendo il suo lettore in una dimensione distruttiva, le cui fattezze non sempre si traducono nel più efferato dei crimini, ma agiscono per vie più sottili, infliggendo una morte che è, prima dello spirito, e, poi, nei casi più estremi, del corpo.
Perché il femminicidio non è solo quello che sfocia nell’omicidio di una donna.
Il femminicidio ha ben altre facce: è una violenza che non necessariamente lascia addosso lividi visibili; è un abuso lento, che fiacca gli animi, che attenta a ogni tipo di diritto sociale; è una condotta infida che erode, con scrupolosa efficienza, l’autostima e la fiducia in se stesse, portando avanti un  atteggiamento reiterato – quasi strategico – che mira all’annullamento di ogni facoltà di autodeterminarsi.
Il femminicidio prima di tutto sottrae la libertà; nega un’esistenza autonoma, compie una sperequazione che agisce su ogni ambito della vita di una donna e prospera laddove c’è debolezza affettiva.
È femminicidio la storia di Brigitta. È femminicidio la storia di Ingrid. Lo è la storia di Victoria. Tre donne tradite nei sentimenti, nella fiducia, nelle speranze. Figure femminili che divengono l’emblema di una consuetudine fin troppo radicata nel marcio tessuto culturale su cui ci muoviamo. Ma la Läckberg, con un’intuizione che deraglia dai soliti binari, sovverte la realtà, crea una sorta di effetto sliding doors che apre, per l’appunto, “la porta” a un’evoluzione e a un finale della vicenda in cui “il solito esito” non è contemplato. Provoca Camilla. Mostra l’altra faccia della medaglia.
Non istiga, certo! Non istiga se non seminando il tarlo di una certezza incontrovertibile: la violenza non può far altro che generare altra violenza. 

 

Mariella Barretta

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