Il club dei delitti del giovedì -Richard Osman



Richard Osman
Il club dei delitti del giovedì -Richard Osman
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Se ne parlassi bene, potrebbero anche offendersi. E guai a scadere nella retorica, ancora peggio. Che dire allora di questi quattro vecchietti che in meno di un mese sono riusciti a scalare le classifiche di vendita nel Regno Unito conquistando persino Steven Spielberg? Probabilmente, comunque se ne parli, troverebbero qualcosa da ridire. Meglio non obiettare allora e sperare piuttosto di arrivare a ottant’anni come loro. Energici. Curiosi. Liberi. E magari anche a noi capiterà un giorno di incrociare sul nostro cammino una Elizabeth, un Ibrahim, una Joyce, un Ron con cui bere vino insieme e mangiare torte innaffiate di vodka. Perché a questi arzilli ottantenni i vizi non mancano. Né la vitalità. Loro, diversamente dai loro coetanei di “Cocoon”, non hanno nemmeno bisogno di una piscina per “ringiovanire”: a loro, per sentirsi di nuovo giovani e vivi, basta un delitto, un vecchio crimine irrisolto su cui poter indagare. È quello che fanno ogni giovedì nel loro esclusivo club dei delitti. Ricercano moventi e piste negli incartamenti, nei fascicoli della polizia che si procurano in segreto. Li rileggono maniacalmente. Tutto sulla carta, però. Fino al giorno in cui una mano assassina arriva a colpire quasi sotto i loro occhi, nel piccolo villaggio del Kent in cui vivono. Impossibile lasciarsi sfuggire un’occasione così ghiotta, anche a costo di rischiare una denuncia per intralcio alle indagini, tanto “abbiamo passato l’età per preoccuparcene“. E così si mettono a indagare per davvero. Organizzano appostamenti, ricostruiscono percorsi. Interrogano testimoni. Pur di sbrogliare la matassa, non esitano a servirsi di ogni mezzo (e persona) a loro disposizione. E a farsi passare per amabili vecchietti smemorati quali non sono. O meglio vecchietti sì, ma smemorati no. E neanche troppo amabili.  
Insieme riescono ad entrare in possesso di informazioni riservate. A scorgere dettagli che potrebbero sfuggire anche a un investigatore navigato. Ognuno mettendoci del suo. Il proprio trascorso, l’esperienza (e la saggezza) di chi in oltre ottant’anni di vita ne ha viste di tutti i colori. Oltre a una vena di dissacrante ironia che non guasta. Lì funzionano, nel loro essere insieme: nel loro essere “una banda” e nel sapere di trovarsi “in mezzo a qualcosa di insolito“. Funziona la dimensione giocosa in cui si sviluppa l’indagine e si susseguono i fatti. Perché per loro dare la caccia al colpevole è quasi come giocare a burraco. Non hanno fretta, né ansia di trovare un colpevole, diversamente da chi, per mestiere, è costretto a portare rapidamente risultati. Sanno di avere passione, intuito: basta questo.
Il gioco si regge anche sulla loro irriverenza, sul loro essere scorretti “a fin di bene“. Il gioco è nel chiacchiericcio di paese, nei segreti (neanche troppo) sepolti che Osman cinicamente scoperchia. E finisce per riflettersi nello stile asciutto, pungente. Intriso di citazioni e riferimenti all’attualità e al mondo televisivo inglese (l’autore è un noto conduttore tv). Pagine che sprigionano un’allegria ricercata, frutto dello humour tipicamente british di cui sono impregnate. Ma anche intense riflessioni. Sul valore del tempo, il senso dell’amicizia. Sulla malattia. Sull’amore oltre la morte. Principalmente affidate a Joyce, al suo diario, ma non solo. Perché il gioco emerge anche dalla narrazione, costruita sapientemente intorno al continuo avvicendarsi di un punto di vista esterno, onnisciente (in terza persona) e quello di Joyce, custodito nel suo diario personale (in prima). E dall’intreccio, dove poliziesco e comedy si equilibrano efficacemente (cosa non scontata come sa bene chi ha già avuto modo di misurarsi con qualche “commedia gialla”).  “Forse siamo infuriati contro il crepuscolo della luce ma questa è poesia, è vita“: sta qui, in queste parole, la forza (ma anche l’essenza) de “Il Club dei Delitti del Giovedì”. Non stupisce che Steven Spielberg abbia già opzionato i diritti per farne un film. Anche se piuttosto sarebbe di gran lunga meglio che Osman si affrettasse a scriverne il sequel. Perché una volta salutati Elizabeth, Ibrahim, Joyce, Ron e lasciato quel piccolo villaggio del Kent che abbiamo imparato ad apprezzare, non si può far a meno di pensare a quanto sarebbe bello prima o poi poterci ritornare. Mangiare insieme una fetta di torta innaffiata di vodka. Bere vino. E, perché no, anche risolvere nuovi casi. Ovviamente, a modo loro.   

Giulio Oliani

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