Antonio Lavezzi è un uomo comune: un lavoro, una famiglia e una vita ordinaria, finché la sua routine esistenziale soccombe alla mostruosità; una mostruosità che violenta, e uccide la sua bambina, Michela. Uscito dal coma, causato dall’aggressione dell’assassino rivenuto in casa, Antonio è disprezzato e abbandonato dalla moglie.
Ma sopravvive, cambia città e lavoro, si rifugia in una rassicurante, metodica e abulica routine, scandita da inerzia e negazioni, ché “gli scheletri non escono mai senza permesso”, finché la mostruosità non rientra, prepotente, a scardinarla.
Una morte che è un messaggio per lui. Qualcuno gli chiede di liberare la sete di vendetta che per troppo tempo ha tentato di domare e di metterla al suo servizio. E Paola Barbato, sfruttando le doti di sceneggiatrice per Dylan Dog, con l’occhio indagatore di chi ben conosce i personaggi che crea, gli offre la chance di riscattarsi, in bilico tra il ruolo di sopravvissuto/vittima e quello di carnefice: “ogni volta che viene commesso un crimine o un delitto tutti ragionano in linea retta: vittima-carnefice. Ma c’è un terzo punto di vista, quello di chi rimane. Chi rimane vivo, chi rimane in attesa, chi rimane e combatte”.
A cavallo di numerose città, come se lo seguissimo su una sorta di mappa umana e territoriale, Antonio pareggerà i conti. Un percorso impervio ma necessario per riprendere a respirare, a vivere.
Con Il Filo rosso, la Barbato intesse una storia che s’ispira alla cronaca nera e che va oltre la definizione di bene e di male, raccontando gli eventi nella loro concretezza. E’ il dolore, “drappeggiato, persino travestito, inghirlandato di varie definizioni, fisico, psichico, spirituale”, il tema portante di questo thriller ingegnoso e adrenalinico, che non dà tregua, coinvolge e appassiona.