Grazie a Bompiani ho avuto l’opportunità di intervistare Guillermo Arriaga, un artista messicano che oltre a essere regista e sceneggiatore è anche un ottimo scrittore. Durante l’incontro con il pubblico ha espresso la speranza che Il selvaggio sia “un libro che, se lasciato cadere sul tavolo, schizzi vita nell’impatto”. Per quanto mi riguarda è riuscito nell’intento, Il selvaggio è davvero un romanzo ricco di vitalità.
Molti sono i pregiudizi e gli stereotipi contro il Messico e i messicani. Vorrei chiederle chi o cosa sono i messicani e il Messico per lei?
Per me i messicani sono solidali, ospitali e generosi. Basta pensare alla risposta umanitaria che c’è stata in seguito al terremoto dell’anno scorso in Messico. Ogni messicano si è attivato per aiutare chi era stato colpito dagli eventi sismici con la stessa generosità con cui, già trent’anni prima, la popolazione aveva prestato i soccorsi a chi ne aveva bisogno in seguito a un altro tremendo terremoto. Chiunque ne ha avuto la possibilità si è dato da fare per dare una mano, anche le donne o le signore più anziane che non potevano aiutare fisicamente, si svegliavano prestissimo e facevano il possibile per preparare da mangiare per i soccorritori. I miei stessi figli si svegliavano alle cinque del mattino, andavano casa per casa e tornavano all’una di notte. In tutte le città colpite ci sono state persone che hanno dato un aiuto concreto, questo dice molto di più del Messico e dei messicani più di qualunque cosa fatta dai politici messicani.
Ne Il selvaggio, Humberto e il gruppo di estremisti di cui è a capo sono la causa delle difficoltà e del dolore con cui Juan è obbligato a misurarsi. Vorrei chiederle quali sono i suoi rapporti con la religione e se Avilés e Chelo rappresentano le consolazioni alla portata degli uomini contro il dolore e la morte?
Prima di tutto, sono ateo. Assomiglio molto a Juan, il protagonista del romanzo. Ho un padre agnostico e una madre che non è religiosa praticante. Le scuole che ho frequentato erano assolutamente laiche, quindi né a scuola né a casa ho mai sentito pronunciare le parole “peccato” e “colpa”. La mia cultura non si è formata a partire da persone che si torturavano con il concetto o il peso del peccato.
Ho diretto una pellicola con un argomento religioso dal titolo Parlare con Dio, faceva parte di una serie che trattava temi che non si affrontano a tavola come il sesso, la politica e la religione.
Negli Stati Uniti ho incontrato dei leader religiosi, tra cui anche la vice presidente dell’associazione che fa capo al Reverendo Jackson. Lei mi chiese: “se non sei cresciuto in Dio chi ha vegliato su di te, chi ha fatto in modo che ti comportassi bene?” Le risposi che si sbagliava, perché un ateo crescendo diventa un umanista perché non guarda verso l’alto ma verso i propri simili.
Avilés non è solo un personaggio di finzione, esiste realmente ed è il mio migliore amico con cui faccio spesso delle battute di caccia. [N.d.r. l’autore è appassionato di caccia con arco e frecce ma non la intende come un’occupazione ludica, assume una dimensione più spirituale, dove il vero intento è entrare in contatto con la natura]. Avilés è una persona gentile, intelligente, molto generosa e altruista. Volevo omaggiarlo e ne Il selvaggio ho inserito la sua persona e tutte le sue qualità. Mentre scrivevo riusciva a darmi nuovi spunti, ad aprire nuovi orizzonti e illuminare sotto un’altra luce la storia che stavo raccontando.
Quindi. l’amicizia, l’amore e la vita sono la vera risposta alla morte?
Credo che l’amore e l’amicizia siano i migliori antidoti contro la disperazione e la morte. Gli stessi valori di cui parlava Cristo, prima che fossero fraintesi dalla chiesa e ritengo che siano molto più efficaci di ciò che offre la religione.
Immagini la scena. Lei e Juan “Cinque” Guillermo al tavolo del bar. Di cosa parlereste?
Difficile immaginarlo perché entrambi siamo astemi, però credo che, se ne avessimo l’occasione, finiremmo per parlare d’amore, di amicizia e della caccia.
Il lupo Nujuaqtutuq cacciato da Amaruq, Colmillo alla catena dietro la casa dei Prieto, Juan alla ricerca della sua vendetta. Cosa significa essere selvaggio?
Viviamo in una società che stravolge la nostra identità e fa di tutto per addomesticarci, essere selvaggio è il tentativo ribelle di affermare la propria identità.
L’essere selvaggi è la misura di ciò che siamo contro tutte le limitazioni imposte.
La letteratura e l’arte devono solo essere intrattenimento o c’è qualcosa in più?
No, se è solo intrattenimento non è arte. La funzione dell’arte non è divertire. Deve dare fastidio, ferire, deve provocare delle reazioni e fare riflettere sulla propria condizione. Se è solo distrazione, non è arte.
Lei è regista, sceneggiatore e scrittore. Con quale dei tre mezzi preferisce raccontare le sue storie?
Io racconto storie. Cerco di farlo con il mezzo e l’espressione con cui posso raccontarle meglio. Quindi può essere una pellicola, una serie televisiva, un’opera teatrale, un video o qualsiasi cosa forma adatta per raccontare la storia che ho in mente.
Non c’è intervista che non si rispetti se non termina con la classica domanda: “progetti futuri”.
Ora sono molto concentrato sulla promozione de Il selvaggio, a breve proseguirò nel lungo viaggio che mi porterà in Germania, Olanda, Inghilterra, Francia, Lituania, Polonia e Cina. Sono molto felice e onorato di avere avuto l’opportunità di venire in Italia per presentarlo ai lettori italiani.
MilanoNera ringrazia Guillermo Arriaga per la disponibilità.
Qui la nostra recensione de Il Selvaggio