Mia madre è deceduta all’età di settant’anni, quattro mesi, sei giorni, cinque ore. Nata sotto il segno dei gemelli, morta sotto quello della bilancia. Sedeva sulla poltrona in velluto logoro del salotto tra luci annottate, ghepardi e levrieri in ceramica alti mezzo metro, editti napoleonici in cornici d’argento e quadri tipo natura morta con calamaio, mentre composizioni di fiori secchi in anfore di terracotta pendevano dal soffitto rosa antico. In silenzio fissava per ore qualcosa davanti a sé. Cosa vedesse non so. Se rompevo l’involucro del suo straniamento e le chiedevo qual era la più grande isola italiana, mi rispondeva L’Isola di Pasqua.
Diciamo subito che questo nuovo romanzo di Paolo Grugni più ancora di quelli che lo hanno preceduto non è per lettori inclini all’allegria. L’inguaribile malinconia che attanaglia l’autore, animalista e ambientalista militante, trasuda lacrime e rimpianti da ogni pagina. Eppure ha fascino questa scrittura dolente e pessimista, non priva di sprazzi d’umorismo (nero). Le metafore non sono luoghi comuni ma vere suggestioni e la storia è credibile dalla prima all’ultima riga, sostenuta com’è da uno stile asciutto fino all’avarizia, ben ritmato, fluido come acqua che scorre dalle dita. E, soprattutto, da una storia che appartiene alla realtà dell’universo femminile. Il protagonista, Mauro Casagrande, è un giornalista duro e puro. Troppo idealista per seguire la linea politica del giornale per il quale lavora, decide di uscire dai ranghi e si improvvisa venditore di libri on line. I guadagni sono scarsi ma gli bastano e la sua esistenza ha raggiunto un fragile equilibrio psico-fisico-affettivo quando di colpo tutto si sgretola. Muore sua madre e, contemporaneamente, la sua compagna, Federica, avvocato presso uno studio milanese, viene incaricata di difendere una donna accusata di aver ucciso il figlio neonato perché affetto da una grave malformazione. A quel punto nella sua mente due madri ugualmente imprigionate in un isolamento senza speranza si confrontano: la sua, rimasta chiusa per anni in una paralizzante depressione dopo l’abbandono del marito, e l’altra, l’infanticida. E’ assodato che in Italia si continua a vietare tutto quello che tocca la sfera della maternità da prima del concepimento fin dopo il parto. Questa crudele tenacia, sostenuta dalle leggi ispirate alla bioetica che chiamano ‘tutela della vita’ è, di fatto, per molti cittadini, una sciagura perché le famiglie si trovano a fronteggiare da sole situazioni impossibili quando il frutto del concepimento tanto rigidamente tutelato nasce affetto da gravi patologie. L’autore affronta, qui, proprio questo problema. Il gesto, atroce, della madre che sopprime la sua creatura, suscita, come si può facilmente immaginare, una selva di polemiche che minacciano di travolgere anche la giovane avvocatessa e il suo compagno. Un romanzo che sarà apprezzato soprattutto da chi ama andare oltre le storie, oltre le parole, oltre la pura e semplice evasione.