Kiefer, i bagni e il cioccolato

Tre motivi per andare a visitare la mostra di Kiefer alla Triennale Bovisa. Anzi quattro.

Il primo è provare a vedere se riesci a trovarla. Se arrivi infatti dalla Bovisa trovi dei bei cartelli in giro, penzolano dalle finestre, anche, ma senza indirizzo. Chiedendo in giro, sabato pomeriggio velato di nuvole, un indiano mi ha detto Arci scighera? No, Triennale Bovisa, ripeto io, allora non so, dice lui, sorridendo. E nel sentire scighera pronunciata da quei denti bianchissimi, strisciando bene la sc e indugiando sul ghei, ho pensato che sarebbe stato perfetto per leggere un verso nebbioso di Franco Loi dove proprio di scighera si parla. Comunque ci siamo alleati ad altri impavidi derelitti in cerca della mostra e ci siamo arrivati attraversando il ponte della ferrovia, che pare dimenticato dall’Amsa da almeno anni dieci. Dritto dritto, costeggiando la nuova sede del politecnico da un lato e un muro corroso e ricucito dai graffiti dall’altro (un genio ha proprio sprayzzato una cucitura sul muro rotto), tra rari caseggiati di ringhiera miracolosamente sfuggiti alle ruspe, si apre lo spazio della Biennale. Veramente prima credi che sia la casa colorata che sta di fronte, che attira subito l’attenzione con il rosso e il nero e il giallo che sembra un quadro di Mondrian. Poi eccolo lì lo spazio della Triennale, lo spazio ristoro a sinistra, l’ingresso di fronte.

Secondo: Kiefer è una sorpresa, i paesaggi sembra che ti si muovano contro, l’acqua del mare si avvicina e quei fiori, rinsecchiti, pungenti escono dal quadro e si lanciano in modo selvaggio, e non sai quando sono spuntati, se sono spuntati: immagina i colori di Sironi, sabbiosi e plumbei, distribuiti su superfici immense, figure accennate che paiono folla che si muove, superfici rugose, dense, increspate, crepate alla Burri. L’effetto migliore non si ottiene dalla vista centrale ma direi di fronte a uno dei due fuochi di una ipotetica ellisse che racchiude il quadro. Oppure di lato e i gambi sembrano frecce sottili o spilli vegetali conficcati nell’aria. Mao è onnipresente, immobile, ripetitivo, sbiadito, fotocopiato dallo stereotipo di Warhol e ingrigito da una fotocopia alla Munari.

Terzo: il bagno. Monocromia di piastrelline quadrate blu pervinca, il colore delle violette selvatiche in primavera.. Impatto violento-violaceo, tutto quel colore ti avvolge appena entri e ti disorienta, anche perché ci hanno messo delle porte grigio chiare. Contrasto nettissimo. Attimi di straniamento. Se chiudi gli occhi e giri su te stessa un po’ di volte e poi li riapri non sai più dov’è l’uscita. Ti sembra che ogni porta si apra su un destino diverso, baratro o paradiso? Indugi nella scelta. Ti verrebbe voglia di non uscire per saturarti gli occhi di colore ancora un po’ e vedere l’effetto che fa. Perfetta location per un giallo psicologico.

Quarto: il dolce al cioccolato con i fiocchi di mais. Pur amando in modo patetico e viscerale il cioccolato, ai limiti della dipendenza patologica, non mi sono mai piaciuti i dolci tipo mousse, troppo “mostosi”, pesanti. Ma serviti così, nel ristorante bianco e nero della Triennale, con i fiocchetti di mais che schioccano e scrocchiano e ti obbligano a masticare la crema al cioccolato che è morbida, si verifica quel piacevole connubio di contrasti che riesce ad alleggerire – digerire anche le cose più “gnucche”. Da provare.

Già che sei lì, nel ristorante ci sono delle tovagliette di maglia, acciaio o ferro, non so. Struttura modulare di piccoli cerchietti lucenti, diametro qualche millimetro, incernierati con un minimo di agio. Giocandoci con le dite, appoggiandole appena, si crea un curioso effetto di domino traslato che muove la superficie, creando piacevoli effetti di luce. Provate il moto circolare, sinusoidale, ellittico e tutto quello che vi viene in mente intanto che aspettate il dolce al cioccolato.

attilia garlaschi

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