Le sultane – Marilù Oliva



Marilù Oliva
Le sultane
Solferino
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La Treccani dà due diverse definizioni del significato di sultana:
1. La moglie o la madre del sultano.
2. Nome di un divano rotondo, basso, da tenere al centro della stanza (detto anche divano alla turca).
Perché Marilù Oliva ha voluto definire Sultane le tre anziane, stravaganti e poco dolci vecchie  signore protagoniste del suo romanzo che sfoggia con disinvoltura e consumata  abilità tragicomici toni giallo noir? Perché così le chiama scherzosamente Melania, la strampalata figlia di Wilma. Lei lo fa  per burlarsi  di loro. Sostiene  che sono  le indiscutibili signore e padrone di quel palazzo della Iacp (Istituto Autonomo Case Popolari) di via Damasco. Damasco, già il nome da solo parrebbe un segno del destino dato che Damasco è la capitale della Siria dove tuttora vige un sultanato.  E a conti fatti un po’ regine sono, sultane decise a  farsi valere in quel vecchio condominio popolare di Bologna. E tuttavia, se ci si pensa bene,  anche la forma tondeggiante del divano con lo stesso nome rimanda con prepotenza alle rigogliose forme delle cosce di Nunzia e alla non più verde età sua della sue amiche e accanite compagne di scala quaranta che ogni settimana le vede a  sfidarsi attorno al tavolo.
Ma basta con le divagazioni. Le Sultane mi era piaciuto allora e l’ho riletto, forse apprezzando di più certe spregiudicate sottigliezze di Marilù Oliva che, come lei sa fare, ha tratteggiato  soavemente usando la penna come un bulino da incisore.
Ragion per cui, tanto per cominciare, vi ripresento Le Sultane. La prima: Wilma, tondetta generosa, la  scaltra venditrice ambulante  che batte ancora la campagna per vendere corredi, non sa resistere alla tentazione di un saldo,  ma si crogiola in una triste vita familiare per il doloroso lutto del figlio maschio ucciso in un incidente mentre la femmina convive malamente  a Granarolo con un gruppo di pseudo satanisti.
La seconda Sultana è  Mafalda, magra  spigolosa, con la ricrescita di quattro centimetri e il golf a  maglia che sparge puzza di cipolla quando alza le braccia, due figli ben sistemati fuori casa, uno addirittura in America, ma lei costretta ad accudire il marito malato di Alzheimer quasi all’ultimo stadio. Una donna tirchia addirittura allo spasimo, tanto che le si potrebbe senz’altro attribuire il Nobel per l’avarizia. E finisco con la terza: Nunzia, golosa  e cuoca provetta, bacchettona, piena di voglie e di superstizioni, afflitta da una deformante elefantiasi alle gambe, che vive con il viscido cognato alcolizzato Casimiro e la figlia Betta. Una bella e procace ragazza,   impiegata di livello, che le nasconde i suoi complicati intrighi amorosi.
Tutte e tre insoddisfatte e da sempre oppresse  da una vita difficile, densa di liti, meschinità, malattie proprie o di parenti e dalla difficoltà, vera o esasperata, di far quadrare i loro conti.
Attorno a loro a fare da comparse nella trama che assume presto i contorni di una convincente opera teatrale, interpretata da  un variegato e variopinto  carosello di figure che rimandano al realismo quotidiano della tragicommedia umana, consueta  in un qualsiasi palazzo popolare  di  periferia.
Le tre donne sono amiche, si incontrano, giocano regolarmente a carte una volta alla settimana concedendosi uno spuntino, si sforzano di contrastare con garbo  la costante grossolana maleducazione di Carmela, inquilina del secondo piano, che intrattiene, soprattutto di notte, esibizionistiche performance erotiche con il fidanzato senegalese dai pettorali scolpiti. Performance animalesche  che tengono sveglio l’intero casamento. Un quotidiano fastidio pericolosamente sommato al resto. Ma nonostante le lamentele, quella continuerà a fare il suo comodo, ignorando le quelle tre care vecchiette, apparentemente innocue. Eppure basterà un scintilla, un nonnulla, l’ennesimo contrasto teso a  cambiare il ritmo delle loro giornate, per scatenare  in loro l’esasperazione che le spingerà a lasciarsi sopraffare  dall’ira. E  la causa incidentale sarà  Wilma, coinvolta in un consolatorio e  narcisistico defilé  in guepière, intenta a danzare sulle note di “L’importante è finire” la canzone più erotica della Tigre di Cremona, stritolandosi i piedi in scarpe  décolleté Dolce& Gabbana, rosa shocking, disturbata da Carmela a perdere la tramontana, afferrare una padella e dare il via alla rottura  di troppi tabù. E a  commettere azioni terribili.  Con la conseguenza che tutto precipiterà nel caos dell’eccesso con una  divertente ma grottesca situazione ai limiti dell’impossibile. E non esisteranno confini alla fantasmagorica, vendicativa, perversa e fantasiosa rivincita  delle Sultane.
Marilù Oliva pesca a piene mani dalla sua travolgente  farsa noir e la trasforma in una fantastica  novella che trasuda amicizia, solitudini, rivincite e desideri inconfessabili per parlare  di altri temi molto più seri e puntuali che le stanno a cuore: come quelli dei tanti anziani troppo spesso lasciati da soli oppure gravati da  insostenibili responsabilità socio-familiari.
È una storia surreale che, pur arrivando a sconfinare volutamente persino nell’horror riesce a   descrivere, lo scontro tra volontà e destino. A parlare dell’egoismo, confrontato  all’altruismo, della  realtà e l’immaginario dei sogni. Della vita che passa e che ogni giorno ci lasciamo dietro le spalle, del prezzo da pagare per riuscire a ricuperare un po’ di speranza di avere  un’esistenza migliore.  Ma sognare non può e  non deve essere un  peccato . E infatti le Sultane Wilma, Mafalda e Nunzia sognano, anche se magari non dovrebbero, sbagliano? Senza volerlo? Uhm non ne sono proprio sicura. Altrettanto chiedono a gran voce  civiltà, educazione e da qui, dall’altrui  reiterato rifiuto scatta la rivalsa, la  rischiosa trappola in cui si andranno a cacciare  tra tanti dubbi, troppe dissimulazioni, rabbia, mortali conseguenze, distruzione ma forse anche un futuro.
Insomma, Le Sultane, favola nera  fatta di personaggi e situazioni estreme ma ognuna fine a se stessa e al suo ruolo, riesce anche a spiegare il perché di certi sofferti  rimpianti della vecchiaia e  delle tante egoistiche colpe da attribuire spesso alla gioventù. Solo speranza, educazione e cultura potranno essere in grado di mettere in riga le attuali confusionarie e talvolta  inesistenti regole di buona convivenza?  O per lo meno migliorarle?

Patrizia Debicke

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