“In cantiere ero quello magro e lento, col cappellino del Brasile. Un filo di uomo appeso ai ponteggi. Senza il fisico del ruolo. Con in testa un pensiero fisso: arrivare a sera senza cadere nel vuoto.” Paolo Berizzi, cronista di Repubblica, comincia così il suo lungo reportage dai ponteggi della disperazione dove ha fatto l’infiltrato fingendosi un immigrato clandestino.
Ne girano tante di leggende sugli extracomunitari che cadono dai ponteggi proprio il primo giorno di lavoro, o che vengono schiacciati dai macchinari, dalle gru, dalle piastre di acciaio un’ora dopo essere stati assunti. Si parla molto anche del loro sistematico rifiuto di adeguarsi alle misure di sicurezza. Casco, cinghie, guanti, occhiali protettivi… Chissà perché non vogliono mai indossarli!
Per vedere con i propri occhi, per capire e poi riferire cosa succede veramente sui cantieri, Paolo Berizzi un mattino si è mescolato agli uomini che nelle ore che precedono l’alba affollano certe piazze della europeissima Milano. Le conoscono tutti quelle piazze: lì i caporali vanno a scegliere i nuovi schiavi come fossero merce qualunque.
Tu vai bene, tu no…
Dicono il prezzo. Prendere o lasciare. E poi caricano i fortunati/disgraziati su pulmini che puntano dritti verso i cantieri.
Perché ho scelto un libro di denuncia sociale per la rubrica di una testata giornalistica dedicata essenzialmente alla letteratura noir? Semplice: perché i protagonisti delle storie vere di Berizzi quando si alzano dai materassi sfondati a notte fonda per recarsi a un mercato in cui la merce sono le loro braccia, non sanno mai se vedranno il tramonto. Più thriller di così!
Lì, sui cantieri, ma anche nelle campagne e in certe fabbriche, comincia la loro scommessa con la vita e la posta in gioco, per chi arriva a sera incolume con la sua manciata di euro in tasca, è il privilegio di ripresentarsi sulla piazza il mattino dopo.
Chi cade dai ponteggi o si ferisce, viene scaricato da qualche parte e nessuno, né i compagni né il capomastro, l’avrà mai visto né conosciuto.
E Berizzi non ha dimenticato nemmeno il mercato dei bambini. I piccoli schiavi cinesi che di notte cuciono i jeans e le borsette negli scantinati e al mattino si addormentano sui banchi di scuola. Almeno, quelli che sono tanto fortunati da avere genitori che a scuola ce li mandano.
E ragazzini imbarcati sui pescherecci o “assunti” come facchini al mercato del pesce, come Mimmo che ha 14 anni e da quando ne aveva 11 lavora con orari massacranti “da uomo”. Che dire di Salvatore, 13 anni e niente scuola, che a 13 anni passa le giornate alla catena di montaggio delle mozzarelle di bufala taroccate per 4 euro all’ora? E Francesco che non sa perché lo chiamino Geppetto visto che lui, Il libro di Pinocchio, non lo a mai letto: ha 11 anni soltanto e lavora in falegnameria a costruire cassette per la frutta. Taglia il legno, spara i chiodi e se si fa male, pazienza. Se resta ignorante che male c’è? La scuola è un lusso.
Mimmo, Salvatore, Francesco non sono figli di immigrati. Sono italiani, italianissimi. Ma questo non deve stupire perché lo sfruttamento delle braccia altrui non guarda in faccia a nessuno e questa, nel mondo dei nuovi schiavi, è l’unica forma di democrazia consentita.