Albergo Italia



Carlo Lucarelli
Albergo Italia
Einaudi
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Forse a causa delle scorciatoie che la mente talvolta imbocca, siamo soliti abbinare il nome di Carlo Lucarelli a indagini nelle quali la tecnologia – fatta di Ris, intercettazioni e perizie – è uno strumento essenziale nelle mani di pur abili inquirenti. Tuttavia “Albergo Italia”, l’ultimo romanzo di Lucarelli, non è niente di tutto questo: perché la storia è ambientata in piena epoca fascista e nell’Eritrea di Asmara, Adua e  Massaua.
Il caso che occupa il capitano Colaprico  e il suo valido assistente autoctono, il carabiniere etiope Ogbà, scoppia insieme alla tempesta atmosferica che flagella l’altipiano eritreo proprio durante il giorno in cui si inaugura “il nuovo albergo, il più grande, il più moderno, il più elegante – e ancora l’unico – della nuova Asmara”. In una camera dell’albergo viene ritrovato il corpo nudo e penzolante di “Farandola Antonio… professione tipografo”. Le indagini si orientano verso coloro che vantano crediti di gioco e sembrano trovare un immediato, facile epilogo: “Caso chiuso. Il sottotenente Lorenzo Maria Franchini… aveva ucciso il… tipografo di Torino, perché non poteva pagargli i debiti di gioco, poi ne aveva inscenato il suicidio”.
Ma la realtà è ben più complessa: lo si capisce quando viene ritrovata la cassaforte dal misterioso contenuto trafugata da una caserma (“Sopra la cassaforte c’era la testa di Lallai, con la bocca spalancata, senza occhi e senza lingua”). Intanto, la caccia all’assassino si concentra sugli ospiti dell’albergo, molti dei quali sono personaggi ambigui e strani. Come un presunto geologo (“Era un pagherò anche quello, ma intestato a Stevano Michele”), un’affascinante signora di Mantova, Margherita (“Caccio uomini. Un tipo, in particolare. Ricco, scapolo, debole, sognatore”) e “Salle Mariàm…. il ricco amante di un mercante greco”… Poi si profilano i contorni di una truffa internazionale: “Qualcuno in Italia scopre che soldi e documenti della Banca Romana sono in Eritrea…”
Nel nuovo romanzo Lucarelli coniuga il fascino esotico e primitivo del Corno d’Africa al gusto per l’intreccio. La narrazione utilizza frequentemente termini ed espressioni in lingua tigrina, che conducono il lettore a lambire le  contraddizioni dell’italica, fallimentare esperienza coloniale.

 

 

Bruno Elpis

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