Games. Piccoli giochi innocenti
C’è un detto secondo il quale tutto si compie nell’infanzia. Il carattere di una persona si forgia in quel periodo e ogni trauma può essere deleterio. Incisivo.
Se prendiamo il principio per buono, dobbiamo immaginare cosa significhi essere accusati, a soli undici anni, di avere ucciso un compagno di giochi. E forse allora è comprensibile che ne scaturisca un adulto dal carattere insicuro, perennemente afflitto dal senso di colpa, restio a incontrare gente. Chiuso nel suo bozzolo, magari obnubilato da un’amnesia circa lo svolgimento dei fatti. Perché la mente ha mille risorse. Per proteggersi, ricorre sovente alla negazione; alla rimozione del ricordo.
È quanto accaduto a Robert Lindström, incolpato di avere ucciso ventotto anni prima Max, uno dei suoi migliori amici, sebbene di quel fatto non abbia memoria. Troppo piccolo per essere processato, egli è stato semplicemente allontanato dal nucleo familiare e dato in affido. Crescere con una simile onta, però, non è stato facile. Robert ha ripiegato su Stoccolma, pensando che trasferirsi in una grande città avrebbe fatto di lui un numero e avrebbe allontanato dalla sua persona i clamori dei media. Ma niente è più autodistruttivo della propria stessa mente, mossa dalla colpa, sebbene non confermata dal ricordo. Basta l’idea, soprattutto nei discorsi degli altri, per far sentire a disagio. Quasi si fosse un assassino fatto e finito e a nulla, eventualmente, servissero le attenuanti della giovane età. Quando ogni gioco può diventare in potenza pericoloso, tipo una pietra scagliata in un impeto di rabbia, che si abbatte inesorabile sulla testa di un coetaneo.
È proprio a Stoccolma, rinchiuso nel suo appartamento, che lo rintraccia Lexa Andersson, una giornalista che intende scrivere la sua storia, avendo rilevato parecchie incongruenze. “Come ho detto, sono una giornalista, per lo più scrivo reportage. Più o meno come i documentari della tv, ma in forma di libro.” Il carattere impavido, ed estremamente deciso della donna, scuoterà Robert dal suo torpore. Dopo un’iniziale titubanza, egli acconsentirà a partecipare al progetto, seguendola nel natio sobborgo di Skogås,al fine di reperire testimonianze dalle persone che frequentava ai tempi in cui l’amico Max Sander è deceduto.
Ovviamente il clima in cui i due si trovano a operare è ostile. Tutti sono convinti che Robert sia il responsabile di quella morte; lui era il cattivo bambino che si è macchiato di un gesto orrendo. Ma la situazione si complica ulteriormente, quando Robert e Lexa ricevono delle minacce: qualcuno vuole che mollino il colpo, pena la vita. Quel libro non s’ha da fare.
In un thriller che si rivela caotico, dove molti sono i rimandi al passato e coesistono persone che anche all’epoca dei fatti erano in stretto contatto, avviene l’impensato. Come non bastasse, sparisce una bambina, Olinda, che subito dopo viene ritrovata cadavere in una specie di anfratto. Una piccola grotta incuneata nel bosco.
Robert, d’improvviso materializzatosi in città e di ritorno come uno spettro da un passato mai dimenticato, diventa il maggior sospettato. Chi ha ucciso Olinda conosce quei luoghi, è cresciuto ai margini di quella macchia accanto alla ferrovia, teatro di ombre che allungano come rami i loro tentacoli sui ragazzini di ritorno da scuola. Se però Robert non è colpevole, come ritiene Lexa, c’è senz’altro in giro un assassino spietato che cova vendetta. Che tutto vede e pianifica.
La guida delle indagini è affidata all’ispettore capo Carl Edson, insieme alla sua affiatata collega Jodie, e insieme faranno mille congetture. Il clima di sospetto si allarga e si abbatte sui protagonisti, in modo che la tensione rimanga tale per tutta la durata delle tre parti in cui è suddivisa l’opera, anche se l’accelerazione riguarda nello specifico l’ultima. Anzi, segue proprio un’impennata!
Un intreccio intricato, che contempla la presenza di più storie nella storia. Quel che viene narrato in terza persona, armonizza i tratti dell’immedesimazione, in un racconto più intimo da parte di Robert stesso, sebbene anni e anni di sofferenze lo abbiano portato ad assumere un tono forzatamente distaccato. Alla fine, tutte le tessere vanno al loro posto, in quanto l’autore si rivela un “buon dipanatore di trame”. Come diceva Sherlock Holmes, una volta eliminato l’impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità.