Nel maggio 1949 Luigi Einaudi, primo presidente della neonata Repubblica italiana decide di esercitare il diritto costituzionale di nominare i senatori a vita. Potrebbe nominarne fino a quattro, ma la sua attenzione si concentra su due nomi, fra cui quello del grande maestro Arturo Toscanini, figura italiana e internazionale che per quel ruolo rivestirebbe tutte le qualità prescritte dalla Costituzione da poco approvata.
Toscanini, oltre alla fama mondiale che lo accompagna come direttore d’orchestra, ha anche un altro merito: è stato un convinto antifascista che a un certo punto aveva deciso di lasciare l’Italia e trasferirsi negli Stati Uniti non riuscendo più a sopportare il clima di pesanti vessazioni che il regime gli voleva imporre. Sarebbe dunque più che degno di sedere in parlamento se non fosse spuntata, fra la documentazione sulla sua persona e il suo operato, raccolta in vista della nomina, una nota interna di carabinieri risalente a quattordici anni prima.
Poche righe ambigue, che dicono poco ma lasciano la macchia del dubbio sulla sua onorabilità. Il maestro sarebbe stato visto infatti a notte fonda a Piazze, in un paesino sperduto fra le colline senesi, a pochi passi dalla scena di un crimine. Nientemeno che un brutale omicidio.
Era il 1935, pieno regime fascista. A perdere brutalmente la vita in una notte di luna nera era stato un medico molto noto, il dottor Alberto Rinaldi, un luminare, celebre per l’efficacia delle cure contro i dolori articolari dei quali soffriva anche Toscanini. E infatti il maestro, costretto talvolta dalla spalla dolente a dirigere con un braccio solo, era uno dei suoi pazienti.
Quell’omicidio, dopo alterne vicende processuali a carico di tre persone, del posto, non era stato risolto al di là di ogni ragionevole dubbio. Gli accusati, uno dopo l’altro, erano stati prosciolti. Sul fascicolo si era accumulata polvere fino a quando il nome del grande musicista non era stato fatto dal presidente Einaudi nel 1949 per l’eventuale nomina a senatore. Cosa che a quel punto aveva reso indispensabile fare piena chiarezza, perché nella transizione verso la repubblica nessun’ombra era tollerabile sulle maggiori cariche dello stato
L’incarico di indagare con discrezione viene affidato dal consigliere di Stato Riccardo Baccini, al colonnello Luigi Mari, anch’egli grande antifascista liberale e appassionato di musica.
Il colonnello, che soffre ancora i postumi di una ferita a una gamba inflittagli da un gruppo di camice nere poco prima della Liberazione, vorrebbe sottrarsi all’incarico ma non ce la fa perché a fare il suo nome al consigliere Baccini era stato l’amico Carlo Rescigno, un ex commilitone, il quale, letteralmente, lo aveva supplicato di accettare.
Mari parte per l’impresa affiancato dal giovane tenente Vinicio Barbetti. Il fascicolo viene riaperto. Ogni atto d’indagine viene passato al staccio. E Il colonnello intuisce che se si vuole dissipare ogni ombra sul nome del maestro Toscanini è necessario trovare anzitutto il colpevole.
L’omicidio del dottor Rinaldi è un cold case molto interessante che permette di aprire una finestra su un’epoca in cui tutto era condizionato dal regime, anche e soprattutto la giustizia. Insieme, fra alti e bassi, depistaggi, colpi di scena e congetture brillanti, i due improvvisati detective riescono non solo a fugare ogni dubbio sul maestro che tutto il mondo ci invidiava, ma anche a imprimere una svolta inaspettata al caso.
Un romanzo che si snoda con rigore fra invenzione dell’autore e verità storica. Molto belle le pagine in cui vengono ricostruiti i due periodi: quello dell’omicidio e quello dell’indagine. Per scriverlo, Filippo Iannarone si è documentato direttamente sulle carte prese dall’Archivio Storico della Presidenza della Repubblica.
Anche la figura del colonnello Luigi Mari è ispirata a un personaggio realmente vissuto: il Generale Michele Iannarone, zio dell’autore, che fu responsabile dell’intelligence del Fronte Militare Clandestino di Liberazione.