Il conto delle mine



giuseppina torregrossa
Il conto delle mine
mondadori
Compralo su Compralo su Amazon

Peccato che Giuseppina Torregrossa non abbia interrotto il romanzo a pagina 200: fino a quel punto la storia della famiglia di Agata (ginecologa siciliana, proprio come la scrittrice, ma il libro non è autobiografico) era bellissima, raccontata, com’è, attraverso i seni di mamme, nonne, zie e tate, e i dolci di Sant’Agata a forma, appunto, di mammelle.

Era ironica, appassionata, intensa, originale. Quando mai una scrittrice italiana si era permessa di parlare con tanta voluttà del seno? Quando mai era riuscita, sia pure sull’onda della letteratura latino-americana degli scorsi decenni (Dona Flor e i suoi due mariti, di Jorge Amado, è del 1966; Como agua para chocolate di Laura Esquivel, del 1989) a unire così bene il piacere del sesso a quello del cibo? A descrivere con tanta intensità il piacere di toccare un seno (e di farselo toccare) e quello di addentare un dolce di ricotta?
Non solo: nel raccontare le vicende di Gaetano e Luisa, Agata e Sebastiano, oppure di Assunta e Gaspare, Alfonso e Margherita (nonni e bisnonni della protagonista), a cavallo fra Ottocento e Novecento, l’autrice riesce anche a tracciare un ritratto rapido ma efficace della Sicilia, soprattutto quella del Dopoguerra, con il saccheggio del territorio e la distruzione di Palermo a opera della mafia. La condizione spaventosa delle donne si sposava, allora, senza contraddizioni, con la loro forza.

Secondo un paradosso, oggi per noi di difficile comprensione, coraggio e resistenza andavano a braccetto con l’accettazione di tutto ciò che gli uomini imponevano: dalla totale sottomissione (ci voleva nulla per diventare buttana ed essere “ripudiata” dall’intero gruppo sociale) all’inserimento nel sistema mafioso.
In tutto questo, ovviamente, gli uomini ci fanno una pessima figura.
Anche i personaggi migliori, il bisnonno Gaetano, buono ma dominato dalla passione per le minne della bisnonna Luisa, lo zio Ninuzzo, soggiogato dal sedere della moglie, e il nonno Alfonso, “femminaro” impenitente, appaiono segnati una sensualità un po’ infantile, da una completa indifferenza nei confronti dei sentimenti, delle idee e delle esigenze delle donne. Si fingono padroni, anche quando le famiglia grava sulle spalle delle mogli, si fanno servire e riverire anche quando non valgono nulla. A volte, per carità, le donne ricambiano i loro slanci. Anzi, la loro è una sensualità esplosiva.
Ma, fuori dal sesso, sembra che ogni dialogo sia impossibile. Si sprecano le botte, i tradimenti, le umiliazioni. E le donne non protestano mai.

Per questo colpisce che il libro termini (oltre cento pagine!) con le vicende di Agata che, diventata medico al Nord, tornata a Palermo e, apparentemente, emancipata, cade in un surreale rapporto masochista, perde un seno sotto i ferri per un tumore (benché medico, non sa nemmeno che cosa sia la prevenzione), rimane incinta per caso (e la contraccezione?) e, dopo essersi fatta umiliare da un ominicchio senz’arte né parte e redimere da una lesbica, fugge in Spagna e si “salva” facendo dolci. Insomma, di fronte alle sue antenate, vere combattenti in un mondo “islamico” per quanto riguarda i diritti delle donne, la giovane Agata si dimostra debole, sottomessa e anche priva di risorse intellettuali. Peccato, anche perché, per certo, l’autrice ha saputo fare di meglio della sua vita.

Una nota a parte merita in linguaggio: Andrea Camilleri ha fatto scuola, il dialetto siciliano può essere inserito con straordinaria forza ed eleganza nella prosa italiana (con buona pace di Umberto Bossi). La Torregrossa riesce anche a “femminilizzarlo”, a restituire la “parlata delle donne” con grande efficacia.

valeria palumbo

Potrebbero interessarti anche...