Nei giorni che precedono la finale del Premio Scerbanenco e l’inizio ufficiale del Noir In Festival, Milanonera, in veste di mediapartner ufficiale, pubblica ogni giorno recensioni ai libri presentati e interviste ai finalisti e gli ospiti. Oggi vi riproponiamo un’intervista a Bruno Morchio, finalista con Un piede in due scarpe
Hai scritto un giallo “circolare”, nel senso che la trama si sviluppa attorno a una ristretta cerchia di protagonisti, tre o quattro, e la ricerca del colpevole, di conseguenza, si “limita” a quel novero di persone. E’ come se avessi reso contemporaneo “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie. Sono fuori strada?
Non ci avevo pensato ma direi che non sei fuori strada. Lo schema è quello “chiuso” del giallo classico, differente anche dai miei due precedenti “gialli”: Maccaia e La crêuza degli ulivi. L’assassino non può che essere nella cerchia degli “inseparabili” compagni di scuola del liceo D’Oria e dei loro familiari, i quali tutti, all’unanimità, asseriscono che la presunta colpevole (Teresa) è innocente.
E’ corretto definire – sempre che serva farlo – il tuo ultimo romanzo un giallo, anzi che un noir (mediterraneo)?
Correttissimo. Qui di mediterraneo c’è solo l’ambientazione genovese. Volendo essere pignoli, c’è anche l’idea, proclamata alla fine dai sospettati, che una volta raggiunta la verità, fare giustizia diventa quasi irrilevante: anche se fosse assolto in tribunale, l’assassino vedrebbe la propria vita comunque rovinata. Ma la struttura narrativa, senza dubbio, è quella del giallo, con tanto di omicidio-inchiesta e scoperta del colpevole.
Hai definito Un piede in due scarpe un giallo leggero, cosa intendi con leggero?
Mi riferivo al tono della narrazione. Il romanzo è scritto in terza persona e il lettore noterà una evidente scollatura tra la scrittura e la storia; del resto, la presenza di un commissario di nome Ingravallo dovrebbe segnalare che il gioco di mescolare stile alto e comico (parole altisonanti e dialetto, in particolare quello più popolaresco d’Italia, il romanesco delle borgate, con condimento di espressioni della lingua bassa, a cominciare dal titolo, e frequente ricorso alla scatologia) ha a che fare con l’autore del Pasticciaccio. Giallo leggero perché ironico e rivolto ad ottenere un effetto comico e far sorridere il lettore. Anche il cielo di Genova appare spesso “ingarbugliato”, come la vicenda terrena che viene raccontata (“Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo” scrive Gadda).
Questo è il romanzo in cui la tua altra professione di psicologo-psicoterapeuta fa sentire maggiormente il proprio peso specifico. Con l’esperienza i tuoi due mondi, le tue due attività, collimano sempre più. No?
Per me sono gli ultimi mesi di lavoro come psicologo; da aprile farò lo scrittore a tempo pieno e ho intenzione di attingere sempre più a piene mani dal magazzino di trent’anni di esperienza con famiglie, bambini e adolescenti n difficoltà. Questo era già evidente nel romanzo precedente, Fragili verità (finalista anch’esso allo Scerbanenco…), in cui Bacci Pagano era alle prese con una ricca famiglia di costruttori che aveva adottato un ragazzo colombiano. Come si dice: è bene scrivere di quello che si sa.
Un piede in due scarpe è ricco di dialoghi e proprio attraverso i dialoghi, i personaggi si svelano poco a poco. Una sorta di psicoterapia di famiglia, però sulla carta…
Nel romanzo compaiono tranches delle sedute di tre pazienti, oltre al colloquio iniziale con la maggiore indiziata: Teresa Gorrini. Ma è anche vero che il lavoro di Luzi e Ingravallo porta a poco a poco allo scoperto le magagne delle famiglie implicate. Non so se si possa definirla psicoterapia, certo è che sia le indagini di polizia sia quelle introspettive, terapeutiche, hanno un obiettivo comune: lo svelamento di verità accuratamente nascoste allo scopo di difendersi da pericoli esterni o interni.
Sia il protagonista di questo nuovo romanzo, il dottor Luzi, che il tuo più famoso investigatore Bacci Pagano, hanno rapporti quanto meno complicati con le donne, siano esse mogli, figlie, amanti ecc… Quanto c’è di vero in quest’affermazione?
È tutto vero, anche se mi sembra che, invecchiando, il detective abbia acquisito una certa “alfabetizzazione sentimentale” che nei primi romanzi gli era alquanto deficitaria. Inoltre il Bacci vitalista, protagonista muscolare di imprese di strada e di letto, ha ceduto il passo a un osservatore più riflessivo, una sorta di testimone che registra quanto gli accade intorno e si limita a intervenire quando è assolutamente necessario. È una delle tante facce del disinganno, la progressiva consapevolezza di un fallimento generazionale che brucia e spinge non a rinunciare alla ricerca della verità, ma a bandire le verità assolute, definitive. Da Lo spaventapasseri in poi di definitivo c’è solo la morte.
Genova è sullo sfondo, ma forse meno presente che nei tuoi precedenti libri. E’ soltanto una mia impressione, oppure una scelta fatta a tavolino?
Non a tavolino: se mai a tavola, durante un pranzo a Segrate in cui con Michele Rossi, Stefano Izzo e Stefano Tettamanti ci siamo divertiti a immaginare una storia alternativa alla spy story (Il testameto del Greco), una vicenda che fosse nelle mie corde con protagonista uno psicologo e ambientata nel passato. In tutto ciò comunque non si è messo in discussione la centralità dell’ambientazione genovese. Forse, dopo tanti romanzi in cui ho raccontato la città, tendo a darla un po’ per scontata. Comunque ci sono in questo romanzo scorci di Genova che non s’erano mai visti nei precedenti (penso alle crêuze che dal forte di Righi scendono fino al centro, o al vecchio, fatiscente palazzo dei Rolli di piazza Embriaci dove abita la Marchesa).
I tuoi romanzi sono di solito politicamente schierati, questo meno. Sei uno dei tantissimi delusi dalla politica?
Sono soprattutto preoccupato dalla deriva sciovinista, razzista e fascista del Paese. E dal fatto che la rappresentanza politica si basa su un numero sempre più risicato di votanti. Dalla rissosità inconcludente che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni, questa pessima Seconda Repubblica che è cominciata proprio in quel febbraio 1992, con l’arresto di Mario Chiesa.
Il prossimo giallo vedrà tornare protagonista Bacci Pagano o dobbiamo aspettarci una seconda puntata col dottor Luzi?
Prima Bacci Pagano (2018) e poi probabilmente Luzi e Ingravallo.
Sei candidato al premio Scerbanenco, cosa rappresenta Scerbanenco per i noiristi italiani?
Scerbanenco è stato il fondatore del noir italiano, un maestro della scrittura e uno scrittore di grande spessore. È stato per noi qualcosa di simile a Simenon per i francesi e Chandler per gli americani. Solo che la sua produzione noir è molto più esigua e questo lo rende ancor più significativo.
Quale suo libro consiglieresti?
Difficile scegliere tra i romanzi che hanno per protagonista Duca Lamberti; butto lì Venere privata, anche se ci sono altri libri dove gli “indicatori” di un nuovo modo di concepire il poliziesco sono straordinari: in Traditori di tutti Carrua e Duca sembrano quasi sperare che l’assassina, la giovane americana, non confessi (qualcosa di simile troviamo anni dopo ne Gli uccelli di Bangkok di Vázquez Montalbán) o la spietata esplorazione d’ambiente de I ragazzi del massacro, o la onnipresente geografia urbana, che è una mappa dell’anima, con Milano come co-protagonista delle vicende narrate.
Grazie a Bruno Morchio per la dispnibilità
Ricordiamo a tutti che i cinque finalisti saranno presentati il 4 dicembre alle ore 18.30 presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano.
Il Premio Giorgio Scerbanenco 2017, consistente in un ritratto di Giorgio Scerbanenco ad opera dell’artista Andrea Ventura, verrà consegnato la sera del 4 dicembre all’Anteo Palazzo del Cinema alle ore 21.