Piero Colaprico in pillole

Piero Colaprico, giornalista e scrittore, ha incontrato MilanoNeraa Stresa in occasione del Festival Grinzane Cinema.

Il libro (di un altro) che avresti voluto scrivere e il libro (tuo) che NON avresti voluto scrivere…
Avrei voluto scrivere l’Ulisse di James Joyce, finora non mi vergogno di niente di quello che ho scritto. Sono in cammino per fare di meglio, spero.

Sei uno scrittore di genere o scrittore tout court, perché?
Per me il genere è come la nota di una scala musicale, si può battere sempre i soliti tasti o magari variare, ma non è un vincolo se si vuole suonare.

Un sempreverde (libro) da tenere sul comodino, una canzone da ascoltare sempre, un film da riguardare…
Tutti i libri di Graham Greene, Ein Deutsches Requiem di Johannes Brahms, Blade Runner.

Si può vivere di sola scrittura oggi?
Oggi più di ieri, credo che nell’800 i morti di fame tra gli scrittori fossero più numerosi. Oggi molta gente non dovrebbe nemmeno scrivere.

Favorevole o contrario alle scuole di scrittura creativa? Perché?
Contrario quasi sempre, perché sino a questo momento scatenano le ansie di chi vuole scrivere, ma non organizzano dei corsi basati sul rispetto della parola. Se mai dovessi partecipare a una scuola, parteciperei a una scuola di lettura.

Tu hai visto la trasposizione teatrale di un tuo libro: che effetto ti ha fatto?
Nella trasposizione teatrale della città di M. è stato preso un mio personaggio maschile e lo si è fatto vivere a teatro interpretato da una donna nei panni di un uomo. Per me è stata un batticuore continuo, bellissime emozioni.

Cosa pensi delle trasposizioni cinematografiche?
E’ vero che nel passaggio fra la carta e la pellicola si perde qualcosa o no?
Ogni tanto si parla di una trasposizione cinematografica dei miei libri, ma per ora nessun progetto è ancora andato in porto.
Un libro può avere dei figli visivi o auditivi e persino può partorire dei quadri.
Pretendere che i figli siamo uguali ai genitori è un errore che almeno per quel che riguarda la cultura non dovremmo fare.

Che cosa comporta la scrittura a due mani?
Una grande fatica ma anche una grande gioia quando riesce bene. L’uomo, anche il più solitario, è un animale sociale. E uno scrittore, anche il più riservato, ama schiacciare un interruttore e illuminare l’abat-jour di qualcun altro. Quando gli scrittori sono in due, il divertimento raddoppia, come nella vita.

E’ cambiata la tua scrittura incontrando Pietro Valpreda?
Si, è diventata più chiara. La diplomazia di trovare la parola giusta quando a pensarla eravamo in due, mi costringe ancora adesso a dover scegliere il meglio e a NON far finta che senza fatica il risultato venga lo stesso.

Ci troviamo a Stresa. Che effetto ti fa tornare nei luoghi dove avevi ambientato il libro “La primavera dei Maimorti”?
E’ il libro a cui sono più affezionato perché mi ricorda i grandi sforzi di Pietro Valpreda per cercare un po’ di materiale storico che serviva da cornice alle vicende umane ambientate in gran parte sul Lago Maggiore. Pietro Valpreda era sfollato qui da bambino, durante la seconda guerra mondiale. Conosceva un sacco di gente e di storia locale e è stato lui a trovare la parola “Maimorti”.
In quel periodo io stavo lavorando sul terrorismo islamico e Valpreda con la sua ‘500 aveva fatto alcuni sopralluoghi in questa zona. Io avevo solo i documenti di un vecchio processo ambientato però su un altro lago.

Ti consideri più giornalista o più scrittore?
Tengo separati i due ambiti, quando scrivo per il giornale voglio essere comprensibile, quando scrivo romanzi e racconti voglio prendere il lettore per mano a volte sedurlo e a volte dargli una bacchettata sulle dita e quindi non mi importa essere chiaro, mi importa di più scaraventarlo nella penombra.

Hai in progetto un nuovo libro?
Sto scrivendo un libro giallo breve per la prima volta in vita mia in prima persona con un io narrante femminile.

Ambretta Sampietro

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