MilanoNera ha avuto la gradita opportunità di porre qualche domanda a Carlo F. De Filippis, attualmente in libreria con Il dono, DeA Planeta.
Nei tuoi libri Torino compare spesso tra i personaggi principali, col fascino severo ed elegante delle sue architetture sabaude. Quale rapporto ti lega a questa città?
Ci sono nato. Come in certi rapporti d’amore mi capita di odiarla. Credo che in generale non sia abbastanza conosciuta, e quando sento parlare di bei luoghi italiani mi secca che venga citata raramente. Tuttavia, riconosco che ha fatto troppo poco per raccontare al mondo che è un luogo affascinante, che la Fiat non è che un frammento -per fortuna diventato marginale- che c’è molto, moltissimo di più; e purtroppo una certa piemontesità in questo ha grandi colpe. Mi piace metterla nei miei romanzi, con moderazione, senza farli diventare delle guide turistiche.
Zac Argenti è una tua nuova creatura, un mix tra rigore, istinto e umanità. Qual è stata la genesi di questo personaggio?
Oh, Zac: genesi venuta al primo colpo – mi capita raramente- di solito sui personaggi lavoro a lungo prima di trovare il profilo che mi convince. Volevo un bel poliziotto, paraculo, “simpatico” con le virgolette, consapevole della propria forza, con un senso della giustizia molto personale, lo volevo attaccato alla divisa e al sentimento di servizio. Però anche vicino alle persone comuni, non mi interessava una specie di “Robocop” tutto dovere giustizia e massimi sistemi. Un noioso. Lo volevo con un passato difficile, una famiglia sfilacciata, un’infanzia infelice. Lo volevo trasgressivo, umano, con un debole per le donne, la buona tavola, per una vita piena. In fondo un uomo comune, anche se è decisamente un bel tipo. Mi sono divertito a tratteggiarlo.
Il dono evoca atmosfere soprannaturali, spingendoci a riflettere su tematiche ancestrali, come il rapporto tra vendetta e giustizia. qual è il tuo giudizio morale sui personaggi di Eduardo e Colette?
Uh, domanda difficilissima, cioè, risposta difficilissima; non voglio parlare di soprannaturale: lo spoiler è dietro l’angolo; mentre mi stuzzica molto la questione della vendetta e della giustizia. La vendetta è uno degli ingredienti principali del mio modo di “cucinare” una storia. Ho amato da ragazzo Il conte di Montecristo e da quella lettura ho preso tutto quello che potevo a proposito di riscatto, di rivalsa, di rivincita. Credo che sia una delle risposte più autentiche dell’essere umano, insieme all’ira. I protagonisti del Dono hanno un credito da riscuotere, un pagamento biblico: occhio per occhio… vita per vita. Non darò un giudizio morale: è chiaro che non si può consegnare la giustizia nelle mani del boia, tuttavia, umanamente, capisco che l’istinto di pareggiare i conti -ma non è possibile cancellare un errore con un altro errore- sia fortissimo. Eduardo e Colette si muovono costantemente in bilico tra giustizia umana e vendetta ancestrale, lascio al lettore il giudizio finale.
In un frangente storico in cui la rabbia è stata sdoganata da sentimento da controllare a legittima manifestazione, in cui tanto si parla di giustizialismo, ritieni che il tuo romanzo possa fornire, se non una risposta, un invito alla riflessione?
Mah… vorrei restare attaccato al senso pratico e ai limiti della letteratura di genere. In altri termini, non ho molta fiducia che un romanzo possa aprire la testa a chi dentro la testa ha poco da mettere in moto. Il romanzo è prima di tutto intrattenimento, abbraccia temi scottanti e situazioni reali ma non ha la pretesa di indicare il percorso migliore. Lo stesso protagonista, il commissario Argenti, non esprime giudizi e anzi, resta fedele al concetto che nessuno può farsi giustizia da sé, neppure quando ha tutte le ragioni. Lo stato amministra la giustizia, il resto è narrativa. Se proprio si vuole trovare un invito alla riflessione bisogna iscriversi a giurisprudenza, o filosofia.
Devo farti i complimenti per la costruzione delle figure di Petra e Andrea: sono due mediocri, simbolo della banalità del male, ma sono descritti nel loro quotidiano di cinismo, sesso e ambizione in modo tale da risultare estremamente realistici. Cosa pensi di questa società in cui Petra e Andrea possono risultare paradigma della scalata alla ricchezza e al successo?
Incasso con piacere i complimenti. Petra e Andrea sono due sbandati, due naufraghi, due ciarlatani che hanno trovato il modo di nascondersi nelle pieghe del sistema: la nostra è una società complessa nella quale, entro certi limiti, puoi sparire se vuoi, renderti invisibile, puoi perfino vivere di piccoli espedienti, e se sei furbo se stai nel piccolo cabotaggio puoi anche durare per un po’. Ma in genere la stupidità in questi soggetti fa la differenza, è inevitabile che si caccino in guai più grossi di loro: si credono furbi. Della nostra società penso che, l’aver massacrato il sistema scolastico, quasi cancellato la Ricerca abbia di fatto creato l’ambiente ideale per lo sviluppo della mediocrità, per il furtarello, l’incompetenza. Per fortuna abbiamo anticorpi abbastanza buoni e oltre un certo limite non puoi andare. Ma un Paese come il nostro meriterebbe di più.
La struttura del giallo richiede l’uso di schemi più o meno fissi, ma la bravura del giallista consiste nel creare ogni volta nuove atmosfere, nuovi personaggi, nuove tematiche, come nel caso di questo romanzo. Come mai la scelta così insolita del paranormale? Dobbiamo aspettarci da Zac Argenti nuove indagini? … ai confini della realtà?
A caldo mi viene di rispondere un bel sì. Nei fatti non ti nascondo che aver proposto con il Dono una strada giallistica originale, nuova per molti aspetti -chi leggerà il libro spero che lo apprezzerà- ha richiesto una certa dose di coraggio. Tuttavia, i primi riscontri sono ottimi. C’è chi mi ha scritto 36 ore dopo aver acquistato il romanzo, estasiato dal contenuto e dalle novità che, come vedi non cito mai. Non è per discrezione, è che rovinano la lettura a chi lo ha già comprato. Quindi… silenzio totale.
Una curiosità: qual è stato il percorso per diventare giallista? Come nasce uno scrittore di gialli?
Nel mio caso lo sognavo da sempre. Ho esordito nel 2015 con la serie che oggi è una trilogia, con protagonista il commissario Vivacqua, ma scrivevo già da moltissimi anni. Ho iniziato a scrivere gialli per scherzo. Poi, mano a mano che tentavo di imbastire la storia mi accorgevo che era divertente. All’inizio le storie non erano male, ma lo stile non mi piaceva, poi un po’ per volta sono arrivati i primi miglioramenti, qualche incoraggiamento, e ho cominciato a prendere un po’ più seriamente l’idea di scrivere. Ma c’è molta casualità e, lo ammetto, molta passione. Comunque, bisogna essere un po’ matti, questo sì, dalla nascita proprio.
Grazie Carlo e tanti auguri per le tue nuove avventure “gialle”.
MilanoNera ringrazia Carlo F. De Filippis per la disponibilità
Qui la nostra recensione a Il dono