Le schegge – Bret Easton Ellis



Bret Easton Ellis
Le schegge
Einaudi
Compralo su Compralo su Amazon

Tredici anni dopo Imperial Bedrooms, Bret Easton Ellis torna alla narrativa e lo fa alla grande, con un romanzo di oltre settecento pagine che si apre con una riflessione inquietante: “L’ultima volta in cui avevo pensato a questo libro, a questo specifico sogno, e a raccontare questa versione della storia – quella che state leggendo ora, quella che avete appena iniziato – risale a quasi vent’anni fa, quando mi dissi che potevo farcela a rivelare quanto era accaduto a me e ad alcuni miei amici all’inizio del nostro ultimo anno alla Buckley, nel 1981”. Già, perché Le Schegge (The Shards) è un romanzo dove realtà e finzione si mescolano dall’inizio alla fine. Una sorta di diario oscuro e paranoico, il racconto di un incubo, una bugia travestita da verità, ma anche una confessione senza reticenze e censure. Un romanzo di formazione ermetico ed elegante che strizza l’occhio al thriller gotico e al true crime.

Ambientato a Los Angeles appena prima dei fatti narrati in Meno di zero, pubblicato nel 1985 quando aveva 21 anni, con The Shards Ellis sembra voler chiudere il cerchio aperto proprio con il romanzo d’esordio e passato per la tappa intermedia di American Psycho. Del primo (citato più volte durante la narrazione come quando il protagonista spiega che: “Non sapevo esattamente come descrivere Meno di zero. E non volevo farlo: era su di me ma non c’era una storia, c’erano scene ma non aveva una vera e propria trama, c’era solo un tono sordo, divagante, che cercavo di perfezionare”) ritroviamo il mondo dorato e privilegiato di un gruppo di amici nella città degli angeli dei primi anni Ottanta, descritta ossessivamente nei dettagli, citando film, libri, vestiti, macchine e soprattutto canzoni (wow, che playlist), una città dove “diventavi adulto la settimana in cui prendevi la patente”. Del secondo, invece, le atmosfere vacue e superficiali, il sesso e la violenza, i loro eccessi. Le ossessioni e le perversioni narrate facendo leva sulla fascinazione del macabro e del grottesco.

Nell’autunno del 1981, Bret ha diciassette anni e frequenta l’ultimo anno alla Buckley School, istituto privato per studenti ricchi e annoiati che si trovano a vivere il delicato passaggio dall’adolescenza all’età adulta tra party in piscina, serate in discoteche, droghe più o meno pesanti, rapporti promiscui e sperimentazioni sessuali. Insomma, niente di nuovo per il narratore Ellis, almeno fino a quando l’arrivo di un nuovo studente appena trasferito da Chicago scombina le carte, sconvolgendo la routine e le dinamiche del gruppo di amici di cui fa parte il protagonista. Robert Mallory, il nuovo arrivato, è brillante, affascinante e la ristretta cerchia di privilegiati lo accoglie senza sapere che il suo aspetto sexy e rassicurante nasconde un segreto. A complicare la situazione, inoltre,  l’entrata in scena di Robert coincide con quella di un serial killer che terrorizza la San Fernando Valley uccidendo giovani donne e mutilandone i corpi. Bret, ossessionato da entrambi, si convince che i due siano in qualche modo collegati (“Sospettai che ci fosse qualcosa che non andava in Robert Mallory quasi subito dopo averlo incontrato. Ma si trattava solo di una sensazione. Non avevo prove”) e finisce dentro una spirale autodistruttiva, delirante e paranoica che lo porta ad allontanarsi dagli amici, a isolarsi e perdere il contatto con la realtà (“senti cose che non ci sono”) fino al drammatico epilogo della storia.

Non è la prima volta che Bret Easton Ellis si serve della metanarrativa e dell’autofiction, ma se in Lunar Park la trovata aveva destato qualche perplessità qui funziona alla perfezione perché la tecnica non è fine a se stessa, ma funzionale alla storia. Perché probabilmente non c’era altro modo per raccontarla, per scrivere un romanzo dove non ci sono innocenti, che parla delle maschere che si è costretti a indossare ogni giorno, di alienazione e di come le ossessioni possano condizionare un’intera esistenza, della paura di crescere e della perdita dell’innocenza (“Fu come se un nuovo mondo si annunciasse, tingendo di un colore più scuro quello che avevamo serenamente dato per scontato). Il tutto sorretto da una prosa che è meno minimalista del solito, più densa, ricca, a tratti ipnotica, sorretta da dialoghi credibili (anche se talvolta surreali) e dalla consueta maestria nel tenere alto il ritmo e la tensione narrativa.

Un’ultima considerazione riguarda la traduzione di Giuseppe Culicchia. Non è facile il lavoro del traduttore perché non è sufficiente preoccuparsi del significato letterale delle parole, ma occorre anche catturarne l’essenza, tenendo sempre un occhio puntato sul contesto sociale e culturale, sul momento storico in cui è stato scritto il testo. E poi ci sono la prosa, il ritmo, i giochi di parole, le sottigliezze del linguaggio… tutti aspetti che richiedono un grande sforzo affinché niente vada perso nel passaggio da una lingua all’altra. Bene, Culicchia è stato impeccabile

Ferdinando Pastori

Potrebbero interessarti anche...