Nada



Jean-Patrick manchette
Nada
einaudi
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NADA è, fra i romanzi di Manchette che ho letto finora, quello più legato alla forma classica di narrazione moderna, con una maggiore concessione all’approfondimento psicologico dei vari personaggi, qui più numerosi che in “Posizione di tiro” o “Piccolo blues”. Uscito per la prima volta in Francia nel 1972, in Italia il romanzo è stato edito da Einaudi Stile Libero Noir nel 2000. Nel 1974, Claude Chabrol ha tratto dal libro un film con Fabio Testi, Mariangela Melato e Lou Castel (che io non ho ancora potuto vedere; anzi, se qualcuno lo ha visto e mi dice com’è, mi fa un favore).
NADA è la storia di un gruppo terroristico (il gruppo NADA, appunto) che progetta e mette in atto il rapimento dell’ambasciatore americano in Francia. Tanto per dare un termine di paragone, il gruppo, formato da 6 elementi, sarebbe da catalogare più vicino alla fantomatica “galassia degli anarco-isurrezionalisti” di oggi che alle Brigate rosse di ieri, pure coeve ai fatti narrati nel romanzo. Ho specificato questo perché all’interno del romanzo occupa un ruolo non secondario il dibattito teorico-politico tra i componenti della banda, usi a spaccare il capello in quattro, dotati di una visione del mondo e di come dovrebbero andare le cose diversa l’uno dall’altro. La composizione del gruppo è eterogenea: c’è l’anarchico puro, dotato di fede incrollabile nell’Ideale e nella sua messa in pratica, che vive nel ricordo del padre ucciso sulle barricate in Spagna, nel ’37; c’è il militante di estrazione elevata, eppure incazzato, deciso e alcolizzato; c’è il giovane intellettuale rabbioso, indeciso fino alla fine sul fatto che il rapimento progettato possa davvero giovare alla causa; c’è il vecchio combattente partigiano, passato da una visione utopistica della propria militanza a tutt’altro tipo di visione, molto più amara e pratica, che entra nell’azione solo per ricavarne un guadagno economico (e quindi Carlotto, con il suo “Arrivederci amore, ciao”, non ha inventato niente di nuovo).
Ora non bisogna pensare che tutto il libro sia occupato dai dibattiti teorici e dalle divergenze d’opinione tra i nostri terroristi. Si tratta pur sempre di una storia d’azione (e che azione). Il dibattito è presente, sì, ma in maniera tutt’altro che organica ed esaustiva; si tratta più che altro di spezzoni estemporanei di conversazione tra i personaggi che Manchette, come al solito, capta e rigira al lettore, dandogli così la possibilità, mettendoli tutti insieme, di farsi un’idea di quelle che sono le divisioni che attraversano il gruppo NADA e che avranno conseguenze pesanti per il suo destino. Le divisioni interne alla sinistra, dunque (anche a quella violenta del terrorismo), ecco uno dei temi al centro del libro. La lunga militanza di Manchette nella sinistra di movimento francese degli anni ’60 ha sicuramente lasciato il segno in questo romanzo, la sua opera più “politica” insieme a “Il caso ‘N Gustro”. Manchette condanna la scelta fatta dai terroristi di passare all’azione violenta, mettendo in evidenza la velleità di questi tipo di approccio alla realtà e il fatto che lo stato borghese sia sempre pronto a sfruttare a proprio favore certi frangenti. Egli non dipinge certo gli appartenenti al gruppo NADA come persone intelligenti e lungimiranti, ma bensì come piccoli disperati, incapaci di elaborare correttamente lo stato degli eventi, lanciati verso una rovina già scritta che loro decidono di ignorare.
Dicevo più sopra, però, che il romanzo è essenzialmente un romanzo d’azione, in cui trovano posto i preparativi per il rapimento, il rapimento stesso e diversi scontri a fuoco. Manchette non intendeva certo scrivere un saggio politico, anche se ha sempre sostenuto la capacità della letteratura “polar” di saper leggere meglio di qualunque altra la società; no, come al solito a Manchette interessa raccontare una storia nera, qualcosa che, se lo desiderano, tutti possono consumare con “leggerezza”.
Ho iniziato questo post affermando che questo è il romanzo più tradizionale di Manchette; lo è nel senso che qui J.P.M. si lascia andare a qualche maggiore approfondimento circa i sentimenti di alcuni dei protagonisti, soprattutto Epaulard, Treuffais, Diaz e il commissario Goemond, che Manchette dipinge in maniera feroce, attribuendo alla sua figura una valenza totalmente negativa. Niente di troppo approfondito e inutile, naturalmente, ma riusciamo comunque a sapere, in qualche caso, che il personaggio in quel momento è triste, rabbioso, felice o umiliato, e questo direttamente dalla “voce” del narratore, che stavolta non delega ai soli eventi il passaggio di informazioni al lettore. Non aspettatevi però roba alla “Va dove ti porta il cuore”: è pur sempre di un romanzo di Jean-Patrick Manchette che stiamo parlando. Roba da uomini, mi verrebbe da dire se fossi John Wayne (cosa che, fortunatamente, non sono).

sauro sandroni

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