Requiem di provincia – Davide Longo



Davide Longo
Requiem di provincia
Einaudi
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Erano ancora in fiamme le ultime propaggini dei magnifici anni Ottanta. A Casalforte, un piccolo paese in provincia di Torino, c’era una magnifica fonderia che era il fiore all’occhiello dell’imprenditoria italiana. Un’azienda a gestione familiare come quelle che negli anni del boom fino alla mannaia di Mani Pulite hanno costituito il tessuto economico del nostro Belpaese. Insomma di quell’Italia sana, cattolica e apostolica che cominciava ad essere scalfita dalle picconate di Paolo Villaggio, con i suoi direttori globali e la sua post ribellione sessantottina. 

Erano quegli anni in cui le aziende si contendevano con la parrocchia la missione educativa e formativa che fece grande il nostro paese riuscendo a sradicare semplici operai del Sud e facendoli diventare soldatini di una produzione avanzata, tecnologica e moderna. Aziende e dirigenti organizzavano family day, tornei sportivi, vacanze aziendali e regolari pizzate condite dai tomboloni al sapore di bagna caoda che non facevano certo rimpiangere gli interminabili burraco natalizi delle latitudini partenopee.

È esattamente questa la provincia piemontese descritta da Longo, dove l’eco delle piccole cose di cattivo gusto rischia di diventare voragine, a fare da ambientazione a un certo tipo di delitto che ha tutte le carte in regola per provenire da un’area molto precisa. Un delitto che colpisce il principale astro di tutto il sistema aziendale su cui poggia il microcosmo di Casalforte: Eric Delarue, dirigente della citata fonderia. Abbronzato come se il sole delle Alpi dovesse sempre risplendere nei suoi cieli, sorridente sui suoi jet privati come la fotocopia smagliante del sosia Julio Iglesias, il “grande capo” sembra benvoluto da tutti. O forse, così si vuol far credere. Fino a quando non viene trovato agonizzante con una pallottola nel cranio.

L’esecuzione è da manuale, premeditata con tanto di passamontagna e realizzata all’interno del suo attico, naturalmente affittatogli dall’azienda. Sospeso tra la vita e la morte, Eric Delarue rimbalzerà da una clinica all’altra accudito da una moglie appena scongelata ma mai del tutto, Dora Dasei, l’onorata discendente di una delle migliori dinastie orafe venete.

A indagare sullo strano caso, con la Digos alle calcagna e la spada di Damocle di un passaggio di testimone al Nocs, ritorna la collaudata coppia dell’ispettore Arcadipane, voce narrante di tutta la vicenda, e del suo burbero e geniale superiore, Corso Bramard, commissario almeno fino al primo provvedimento disciplinare.

Un nome, un programma anche per le alte capacità deduttive che fanno di lui un “aiuto” irrinunciabile alle indagini, a discapito del carattere ruvido e dell’indole poco socievole.

È proprio Bramard l’eroe schivo di tutto il romanzo, cui fa da scudiero il più simpatico e ironico Arcadipane, che si ritrova suo malgrado a fare da Watson della situazione, coinvolto durante le indagini in una serie di vicende che, a confronto, i mulini a vento di Cervantes parrebbero nani in festa.

Per il commissario, dormire la notte in un letto fisso è solo una delle tante variabili all’hobby di gironzolare randagio per ingannare l’insonnia, preferibilmente sotto la pioggia di Torino, così che ogni nuova indagine si trasforma per Arcadipane in una caccia al tesoro alla ricerca del suo superiore. 

Ma la cosa peggiore è che anche il cibo, per Bramard, pare non essere incluso nelle costanti di cui avvalersi per carburare, preferito da generose dosi di whisky e Perrier, e inframezzato da inalazioni intensive di Gitanes gialle senza filtro. Con eccezione per le vecchie osterie di quartiere, dove Corso è per tradizione famigliare un habitué, apprezzando con entusiasmo i flan e i brasati della cucina piemontese.

Scarrozzati dal centro aristocratico di Torino alle strade di provincia dall’inseparabile Quadrifoglio Verde (l’Alfa 33 metallizzata di Arcadipane), i due protagonisti inanellano a una a una le tessere di un mosaico che permetterà loro di ricostruire il crimine come l’eccezione di un teorema matematico cui sovrintende l’infallibilità della logica di Bramard, unita a una tecnica d’indagine che non lascia scampo a nessuno. 

Come spesso infatti accade, non bisogna mai lasciarsi incantare dalle apparenze e scavare invece nei nodi irrisolti del passato delle vittime. Dove a riaffiorare improvvisa, ad esempio, è una strana collezione di videocassette delle partite di calcetto aziendali, da cui si evince che un ragazzino era scomparso da troppo tempo.

Poeticamente ruvida, pittorescamente sarcastica, la prosa di Longo ha un carattere peculiare che ne sigilla i romanzi come un  unico marchio di fabbrica. 

I particolari deduttivi di un giallo che nulla lascia al caso e il peculiare contesto storico-sociale che fa da ambientazione, conferirebbero al romanzo già da soli un carattere ben delineato, ma Longo va ben oltre. È il suo talento narrativo, ovvero la capacità di rendere viva ogni scena con le sue descrizioni taglienti ma vive, a tenerci incollati alla pagina. 

Le pennellate di Longo sono realisticamente impietose, in maniera quasi crudele, le sue battute sarcastiche centrano sempre l’essenza delle cose anche da un minimo particolare, riuscendo a tratteggiare i personaggi con sagacia. Le tipologie umane e i loro sentimenti sembrano allora farsi strada quasi in maniera restìa, nella quotidiana guerra, a volte miserabile, del vivere. 

Trapela quell’amarezza sotterranea che scava dentro fino a scalpellare le ossa, lasciando fino all’ultimo momento un retrogusto malinconico come la pioggerella fine che incornicia la solitudine sul quel ponte che conduce alla Gran Madre. Questo mal di vivere è capace di far viaggiare il lettore in un mondo parallelo, persino oltre i grimaldelli del crimine, facendo dimenticare che ciò che sta leggendo – alla fine dei conti – è solo un giallo.

Silvia Alonso

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