Secondo alcuni Senza Veli, l’ultima opera di Chuck Palahniuk, prosegue la sperimentazione avviata con Pigmeo. Probabilmente, però, il continuum non va ricercato in quella sua irrisolta e anomala opera, bensì nel romanzo precedente, Gang Bang.
C’è una sorta di specularità: se là lo scrittore statunitense dispensava gossip grotteschi su una Hollywood del passato utilizzando degli aneddoti che attraversavano la trama pornografica del romanzo, qui li eleva a vero e proprio filo conduttore, ponendo il sesso esplicito a contorno della vicenda.
Inverte gli elementi, insomma, mantenendo e forse amplificando il tema di fondo (Gang Bang in originale si intitola Snuff, con ovvio riferimento alla morte violenta), cosa che dichiara apertamente anche stavolta, in quelle prime tre righe, sole solette, al centro della pagina che precede il primo capitolo.
Ci ha riprovato, Palahniuk. Forse però non ha corretto del tutto il tiro, anzi, lo ha deviato ancora di più, creando qualcosa di inedito e difficilmente etichettabile. All’apparenza, Senza Veli lascia un vuoto che porta a pensare che il romanzo non sia del tutto riuscito. Può darsi che sia così, considerando alcune lacune e certi passaggi ripetitivi che rallentano il ritmo. Ma può anche essere che Palahniuk ne fosse totalmente consapevole. E, mantenendo la traiettoria del suo racconto entro binari offuscati da una costante nebbiolina, potrebbe volerci dimostrare l’impossibilità di centrare tutto ciò che ci accade in un perfetto cerchio di nitida razionalità.
Senza Veli reinventa un “mondo del cinema” sotterraneo (vicende sconosciute, pruriginose) e al contempo etereo/eterno (il mito esiste in funzione del suo essere ricordato). L’ironia e la scaltra assurdità di situazioni e dialoghi (si veda la geniale battuta all’inizio del capitolo “atto uno, scena decima”) si alterna con analisi lucide e forme di contemplazione affatto banali: la sintesi dello “stato psicologico costante” nel quale versa lo Star System (applicabile anche al mondo dello spettacolo di oggi) è in questo senso illuminante. E non occupa più di due pagine del romanzo.
Sintesi e dialettica ineccepibili, in un romanzo costruito come una finta sceneggiatura dalla quale, inevitabilmente, Palahniuk si discosta deragliando verso l’orlo di un baratro mortale. Tra esigenza di apparire e malsane forme di trasformazione (di tutto ciò che ci circonda) in pura e semplice oggettistica o accessorio.